Mercoledì, 27 Novembre 2024
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Intervista a Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.

 

La stagione 2021/2022 si è conclusa con un buon ritorno a teatro degli spettatori fra marzo e giugno. Le premesse per la prossima stagione sono buone? 

L’emergenza sanitaria ha radicalmente messo in discussione l’esistenza stessa delle pratiche performative, a partire dalla matrice generativa dell’esperienza scenica, ossia la compresenza di corpi e la condivisione del respiro. Un simile cambio di paradigma ha, dunque, sconvolto alle fondamenta il mondo teatrale, portando a un ripensamento di alcune categorie cardinali come la nozione di comunità e l’articolazione della dialettica dentro/fuori. In tal senso, premesso che è impossibile generalizzare, il periodo post pandemico che abbiamo già parzialmente attraversato in questi ultimi mesi, dopo un gennaio e febbraio ancora tempestosi, ma in termini di presenza di spettatori vivacissimi, e che ci apprestiamo a vivere nella prossima stagione, speriamo pienamente, induce qualche riflessione. 

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Bianca Burgo, in compagnia del suo obiettivo, è alla ricerca di quello che definisce lo «straordinario prodigio della banalità». Forte delle sue origini siciliane, che grandemente influenzano la sua fotografia, il 18 giugno 2022 espone il suo progetto Terra all’interno dell’associazione culturale Progetto Hestia: un luogo nel cuore di Roma che ha come principale obiettivo la promozione delle artiste donne in un clima di autentica accoglienza, scambi di esperienze e valorizzazione del talento. Ecco la sua intervista.



Quando hai scoperto la passione per la fotografia e quando hai cominciato a considerarla un
mezzo per esprimerti?

L’ossessione per l’immagine, la necessità di catturare ciò che richiama il mio sguardo è presente da quando ho memoria. Negli anni delle elementari sono stata una bambina parecchio solitaria. A circa sette anni chiesi ai miei per Natale una videocamera, di quelle piccine con i mini dischetti da inserire per registrare. Conservo ancora a casa una dozzina di video diario da mezz’ora l’uno, composti da spezzoni di vita quotidiana di me bambina: fatti per tenermi compagnia e impegnare la mente in qualcosa che stimolasse la mia curiosità. La fotografia è arrivata in maniera del tutto naturale dopo essermi approcciata al mondo dell’immagine tramite quei video fatti per gioco. 

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Licia Amendola e Simone Guarany ci parlano dello spettacolo Caso mai, l’imprevedibile virtù della dignità in scena la teatro Cometa Off di Roma dal 24 al 29 maggio 2022

 

Caso mai è uno spettacolo che affronta la storia di due ragazzi che si trovano a dover affrontare la diagnosi di Sla. Come è nato lo spettacolo?

Simone Guarany. Diversi anni fa, mentre ero in vacanza a Tarquinia con mia madre, vidi una video intervista di un dottore che raccontava la sua esperienza con la Sla. La forza, la speranza e la voglia di vivere che dimostrava nonostante quella diagnosi mi avevano lasciato senza parole. Non riuscivo a capire come un uomo di quarant’anni, con una famiglia e nel pieno della carriera potesse essere felice di continuare a vivere anche se ormai a causa della malattia erano tre anni che poteva bere acqua solo tramite una cannuccia… Qualche mese dopo tornai a riflettere sull’argomento dopo aver visto il film “La teoria del tutto” che racconta la vita di Stephen Hawking. Decisi così di scrivere una storia che parlasse di questa tematica. Nel 2016 ci fu il debutto dello spettacolo che però poi è stato messo da parte. Oggi con Licia lo abbiamo ripreso ma modificandolo ed ampliandolo in maniera netta.

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Nato a Roma nel 1998, Luca Valentino intraprende il corso di laurea triennale in Fotografia e Video presso l’Accademia di Belle Arti di Roma concludendolo a pieni voti. Durante questo periodo si avvicina alle arti visive e performative: un incontro che gli fa scoprire una naturale inclinazione verso la recitazione e la composizione grafica. Dopo aver visionato alcune delle sue opere in occasione di altrettante esposizioni, lo abbiamo intervistato. 

 

Quando hai iniziato ad avere la percezione dell’arte come linguaggio per esprimerti?

Sin da bambino sono sempre stato abbastanza creativo e ho cercato dei miei metodi per esprimermi attraverso le mani, creando cose. Al contrario, ho sviluppato una consapevolezza sull’utilizzo dell’arte come medium di comunicazione al pari della parola piuttosto recentemente: avevo già iniziato a studiare fotografia e video durante il triennio presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e questo mi ha aiutato a capire cosa non volevo fare. A differenza di altre istituzioni, l’Accademia di Belle Arti ti dà una preparazione ampia: in questa maniera ho potuto avvicinarmi a diversi mezzi di espressione, comprendendo cosa mi interessava e cosa no. Ad esempio non ho intenzione di settorializzarmi e fare solo il fotografo o il videomaker: non mi interessa il mezzo per il mezzo, fare le foto per la fotografia. Mi piace modificare le cose: nonostante venga da una formazione che è quella delle arti visive, uso l’immagine come punto di partenza per qualcos’altro. Come dimostra un lavoro con i collage dal titolo F.F.F. - Fight.Flight.Freeze. iniziato nel 2018 e che ho esposto recentemente all’interno di uno spazio non convenzionale di Roma: l’Enoteca di Via Macerata/Bunker Art Room.

 

In cosa consiste? 

Mi sono reso conto che accostando due immagini diverse, non necessariamente attraverso una scelta ponderata, si può ottenere un nuovo significato. Sono una persona molto riflessiva, difficilmente mi lancio nelle cose e ciò, per un artista, può essere una pecca. Con l’utilizzo del collage ho imparato a farlo, perché mi ha permesso di affidarmi agli accostamenti inconsci senza dover necessariamente razionalizzare. Mi sono sentito più libero, dandomi la possibilità di sviluppare maggiormente l’intuito. 

 

Perché il titolo F.F.F. - Fight.Flight.Freeze.?

Perché sintetizza le tre possibili reazioni allo stimolo della paura: combattere, scappare o rimanere paralizzato. È nato un po’ per caso, in linea con l’approccio che ho nei confronti del collage: avevo delle foto scattate da me da cui sono partito, ho iniziato con accostamenti liberi e dopo un po’ che facevo composizioni mi son reso conto che c’erano determinati elementi che tornavano e un’atmosfera cupa a cui si deve il titolo. Si tratta del secondo progetto partito da foto mie, da materiale prodotto da me: prima utilizzavo materiale d’archivio o magazine.

 

La tua più recente installazione ha un altro titolo molto suggestivo: All the Words you wasted.

Ci sto lavorando da tre, quattro mesi ed è stata esposta in occasione della Slow Love Exhibition (Vol. II) presso l’ExGarage di Roma, grazie alla quale mi sono spinto un po’ oltre i miei campi di competenza. Ero sempre partito dal video o dalla fotografia per arrivare a qualcos’altro mentre in questo caso ci sono moltissime prime volte: la prima volta che lavoro in termini di scultura e installazione, la prima volta che mi esprimo attraverso l’Arte Relazionale. Sono uscito dalla mia confort zone, coinvolgendo direttamente le persone e mi è piaciuto molto. L’opera è nata all’interno della Slow Love Exhibition (Vol. II), una collettiva realizzata insieme ad altri sei artisti che gira intorno a un unico oggetto: uno spartitraffico ritrovato a Circonvallazione Cornelia con su scritta una specie di poesia o di dichiarazione d’amore folle.  A partire da ciò ognuno ha portato avanti la propria riflessione e realizzato una creazione. Per All the Words you wasted, partendo da questa sorta di lettera sullo spartitraffico mi sono interrogato circa l’intensità dello sforzo di chi l’ha scritta nel proiettare al di fuori di sé - su un materiale - il proprio pensiero, un proprio frammento, la propria espressione, che ha donato potenzialmente a tutto il mondo. Si tratta di una lettera d’amore scritta per qualcuno in particolare ma non le è stata recapitata: è stata abbandonata così. Ho voluto, quindi, dare la stessa possibilità alle persone che ho coinvolto nel progetto: proiettare su un foglio di carta un frammento di sé, della propria memoria, quella lettera che non hanno mai inviato a patto di essere disposti a donarla al mondo tutto. Nei giorni dell’esposizione ho pensato di rendere completamente partecipativa l’installazione: ogni spettatore poteva leggere o portare via una delle lettere che la componevano con la richiesta, però, di scriverne una propria con cui rimpiazzarla. Una regola di scambio che, per fortuna, è stata rispettata relativamente: perché è stato bello vedere la gente che si appropriava dell’opera, interagendo con essa in base a come si sentiva e alla propria ispirazione. 

 

Un’esperienza forte?

Sì perché fino ad adesso avevo lavorato sul bidimensionale, a parete, l’osservatore aveva un ruolo passivo. Stavolta persino la realizzazione dell’opera è stata in qualche modo in mano a qualcun altro, alla gente. La sua riuscita, dunque, non dipende solo da te. E il risultato mi ha dato grandissima soddisfazione.

 

Un appagamento che porta a quali progetti futuri?

Adesso mi piacerebbe esporre il primo lavoro con il collage interamente realizzato con foto mie, ancora inedito anche se concluso un anno fa. Sto cercando un posto che faccia al caso mio. Si intitola Chrysalis e ha come tema, banalmente, il cambiamento. Una riflessione sul passaggio da uno stato a un altro: il bruco che diventa farfalla, nello stadio intermedio - quello della crisalide – cos’è? Noi lo classifichiamo come crisalide, perché è nella natura umana dare un nome alle cose, ma lui in realtà non è più bruco ma nemmeno ancora farfalla. Lo stadio di trasformazione è in un certo senso di non esistenza: non sei più ciò che eri ma nemmeno ciò che devi diventare. Forse, però, è quello il momento più importante dell’esistenza: perché quando un essere smette di cambiare non è più vivo mentre le cose esistono nel loro cambiamento. Da qui il nome del progetto, che comunque è uno studio sul corpo, pervaso da una tensione verso il mutamento, la stessa del bruco che deve diventare farfalla ma ancora non lo è. 

 

La tensione mi pare di capire sia un tema a te caro.

Sì, la tensione irrisolta è alla base della mia poetica: la si ritrova nei miei collage, nell’installazione, nei cortometraggi o nelle videoinstallazioni che ho realizzato. Ed è bene che tale rimanga: nel momento in cui venisse risolta svanirebbe tutto. Per me non c’è mai piena calma, mai pieno raggiungimento. Come un fachiro, ho bisogno dei chiodi sotto di me.  

 

 

Cristian Pandolfino

14 maggio 2022

 

Immagine 

Luca Valentino – All the Words you wasted (2022)

Carta (lettere), supporto per risma di fogli, penne, 150 x 50 cm (raggio x altezza, variabili)

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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