Intervista ad Amanda Sandrelli che ci racconta la sua Lisistrata
L’incontro con Amanda Sandrelli è avvenuto durante le tappe della tournee teatrale di Lisistrata, commedia di Aristofane proposta nella rilettura di Ugo Chiti.
Diciamo subito che siamo di fronte ad una persona deliziosa, autentica, informale, che trasmette la sua passione per il lavoro che fa, ma che lo vive con la giusta distanza, senza divismi e dando la netta sensazione di essere profondamente autentica, con una adamantina scala di valori ed un raro senso dei ruoli.
Sciolto immediatamente l’imbarazzo, la signora Sandrelli è stata generosissima nelle risposte, offrendo anche insperati spaccati del suo vissuto.
Lisistrata è una commedia di Aristofane di grande successo, che ha avuto tante trasposizioni e riletture. Quale è la nota distintiva del vostro spettacolo ?
Chi conosce il teatro di Ugo Chiti sa che siamo davanti ad un autore ed un regista che ha un segno distintivo molto riconoscibile, dote che non tutti i registi hanno.
Per chi non lo conoscesse, Chiti è un autore che ha lavorato molto sul linguaggio, sul dialetto, che osa ‘sporcare’ il linguaggio e rifugge dall’utilizzo di un italiano letterario, quasi astratto.
Quando Chiti, una quarantina di anni fa, ha conosciuto il gruppo ‘Arca Azzurra’, con cui lavoro da quattro anni, erano una compagnia quasi amatoriale, ognuno di loro aveva un altro lavoro, provenivano da famiglie contadine ed il regista ha lavorato cucendo i personaggi addossi agli attori. Ovviamente negli anni la compagnia è cresciuta, però la confidenza e la conoscenza che Ugo ha con i suoi attori si vede e si sente nello spettacolo.
La Lisistrata che proponiamo è una Lisistrata moderna, che non tradisce né l’Antica Grecia, né tantomeno Aristofane, ma prende dei riferimenti che sono riconoscibili per il pubblico.
La farsa è legata al tempo in cui è stata scritta. I riferimenti ai personaggi ed ai politici dell’epoca facevano ridere allora, ma ovviamente se sono passati due millenni e mezzo, bisogna procedere con una riscrittura . Per fare un esempio, l’atmosfera che richiama il Commissario, figura maschile e maschilista, ha un’aria fascista, senza che lo spettacolo sia ambientato al tempo del fascismo. Semplicemente quel tipo di prevaricazione, di violenza, di superomismo, a noi rimanda automaticamente a quelle situazioni, a quei riferimenti.
Questo è il lavoro fatto da Chiti, che ci propone una Lisistrata molto semplice da godere, un po’ sboccata, come esplicitamente richiede il testo, ma mai volgare.
Una farsa cui non viene tolto nulla, che non cade negli intellettualismi fuori luogo, ma che , forte anche della toscanità del regista, riesce ad essere diretta ma non di cattivo gusto.
Per quel che mi riguarda, credo di avere il pregio di riuscire ad adattarmi bene al gruppo dove lavoro. Se c’è una compagnia che funziona, persone che stanno bene fra loro, umanamente oltre che professionalmente , riesco ad entrare facilmente in sintonia, non ho mai avuto grandi problemi: non sono una che si impone, ma non sono neanche una che si lascia mettere i piedi in testa. Mi piace seguire quello che mi viene richiesto e quello che accade intorno a me.
Quale pensa sia l’attualità del testo?
Il testo è, ahimè, attualissimo, perché parla di guerra e di pace.
La guerra è sempre più vicina ed a me preme sottolineare che le guerre non sono finite con la Seconda Guerra Mondiale. Le guerre ci sono sempre state, ma questa è particolarmente vicina ed ha una attenzione mediatica enorme, che la fa sentire ancora più vicina.
Lisistrata parla però anche di guerra fra maschilismo e femminile, che sono due modi di stare al mondo.
Non si è ancora trovata la pace, né dalle guerre, né fra maschilismo e femminile.
Ugo Chiti ha fatto un lavoro delicato e raffinato sul testo, riuscendo a svecchiarlo senza tradire Aristofane ed è riuscito a cucire i personaggi addosso a ciascuni degli interpreti. Cosa c’è Amanda in questa Lisistrata e cosa c’è di Lisistrata nella Sandrelli?
Devo dire che io non ho una tecnica, non ho fatto scuole, ho imparato quello che so in palcoscenico. I personaggi li studio, nel senso che leggo, mi documento, cerco informazioni, con tenacia, finchè non vado in scena. Quando comincio a far agire ogni sera quel personaggio, è lui che mi insegna, che mi fa capire qual è la strada giusta.
Per esempio Lisistrata viene raccontata come un generale, tanto che le altre donne la chiamano così.
Istintivamente, io che sono piccola a e minuta, i primi tempi ho cercato una forza, un peso, anche in palcoscenico. Quasi subito, recitando, mi sono resa conto che non era la strada giusta: Lisistrata è profondamente femmina, si sente di essere la portavoce del gruppo delle donne.
Quando la chiamano ‘ generale’ a lei viene quasi da ridere, perché non è una comandante, una prevaricatrice. Lei è profondamente diversa dal Commissario: non si sente il capo, ma come il primo uccello di uno stormo.
Forse all’inizio ho cercato di trovare quello che è più distante da me: temo di non avere un grosso peso ed autorevolezza e così li ho cercati per Lisistrata, poi però qualcosa ha cominciato ad agire in me, quasi senza che me ne accorgessi: il personaggio ha cominciato ad agire nel mio corpo e con il mio corpo, nel senso che si muove ed agisce a quello che accade in modo naturale, spontaneo e quella è quasi sempre la via giusta del personaggio.
In definitiva, se devo dire com’è la mia Lisistrata, lei è quasi una bimbetta, infantile ed esaltata, convinta di quello che fa e disarmante. Questo le consente di essere simpatica, di non risultare, come la accusa il Commissario, una ‘maestrina’. È la stratega della situazione, ma allo stesso tempo è buffa, divertente, calda, simpatica nella sua presa di posizione. Riesce a non essere mai una maestrina ed in questo mi è simpatica perché mi ci riconosco un pochino.
Quando ero piccolina, mia madre diceva che ero ‘eroica’, perché prendevo sempre spontaneamente le parti di chi perdeva. Ero una bambina che era naturalmente portata ai grandi gesti. Poi crescendo ho dovuto abbassare un po’ la cresta, ma ancora oggi non so risparmiarmi, anche quando dovrei farlo. Questo è quello che ho in comune con Lisistrata, la mia parte su cui il personaggio si è attaccato ed ha cominciato a crescere, un po’ come una pianta.
In comune con Lisistrata ho la passione per l’idealismo e le utopie, che non sono doti dei giovani ingenui, come qualcuno dice, ma doni preziosi cui non si deve rinunciare mai: bisogna sempre puntare in alto, altrimenti non si va avanti. Alla fine è necessario arrivare al vertice, ma è fondamentale avere i giusti stimoli.
Detesto il cinismo, che non è una forza ma una forma di difesa che usano i vecchi perché hanno perso la voglia di vivere. Il cinismo è quello che ci invecchia, perché una persona che riesce ad evitarlo può avere ottantacinque anni ed essere giovane.
Smettiamo di dire ai ragazzi che niente cambierà mai, che
tutto va male, perché non è quello di cui hanno bisogno.
A loro serve la speranza e noi, anche se alle volte facciamo fatica, dobbiamo spingerli a crederci, a coltivare l’entusiasmo ed a non cadere nella disillusione.
Anche fossimo degli adulti un po’ disincantati, non dobbiamo farlo vedere ai ragazzi, perché se sono disillusi a vent’anni, vivranno una vita schifosa.
In questi giorni lo spettacolo è inserito nella rete degli spettacoli dell’Ert, che prevede le rappresentazioni in teatri di provincia, di piccole dimensioni. Qual è la differenza fra esibirsi in una piccola sala, da cento, centocinquanta posti, ed un teatro da mille spettatori?
A parte la differenza tecnica, della quale dopo tanti anni di tournée quasi non ci si accorge, per cui in un teatro più grande si cambia automaticamente un po’ il registro, ci si stanca un po’di più perché si amplifica il volume, il pubblico della provincia è un pubblico molto ben disposto, che spesso dimostra la voglia di andare a teatro, forse anche perché ha meno scelta, meno proposte. Personalmente faccio spesso tournée in provincia e quello che vedo è un paese che non è quello che ci viene mostrato dai telegiornali: è più bello; fatto da gente che non ha perso la speranza; gente che fa tanto per gli altri, senza farsi pubblicità; gente che si spende nel proprio piccolo per migliorare questo mondo; insegnanti che si prodigano per coinvolgere i ragazzi, portarli a teatro, aiutandoli ad avere interessi culturali. Un paese migliore di quello che si vede in televisione, che non si espone, che non cerca la visibilità perché non gli interessa. Un paese che lavora un po’ di più ed appare un po’ di meno. A me piace tanto la provincia. Quando finisco le date e ritorno a Roma, che è una grande e bella città, che ha tutti i problemi delle grandi città, arrivo sempre con un carico di umanità allegro, pensando che il mio paese è meno brutto di come lo dipingono.
Ringrazio a nome del pubblico della provincia, ma sottolineo anche la gratitudine di quel pubblico verso gli artisti che la inseriscono nei loro calendari e che collaborano in maniera fondamentale alla semina della passione
Ma questo è parte del nostro mestiere, da sempre gli attori giravano sui carri. La cosa bella del teatro è proprio quella: che il teatro va, si muove. Il nostro è un lavoro bellissimo, ma non semplice. Ci sono aspetti faticosi, ma se lo fai perché senti il bisogno di farlo, con passione ed entusiasmo, la fatica non la senti e non hai paura di spostarti. Se invece lo fai per i soldi, per il successo, per narcisismo, credo che alla fine ci si stanchi tantissimo.
Lei ha saputo sempre distinguersi per il senso della misura, il garbo. In un modo di creature sgomitanti ha risposto con l’eleganza. Quanto difficile è riuscire ad essere sempre se stessi, in un mondo basato sulle apparenze, sul sensazionalismo, sull’esposizione mediatica?
Non è stato difficile per me, grazie alla lezione ricevuta dai miei genitori. Quando mi dicono ‘figlia d’arte’, dipende anche di chi sei figlia. Ci sono tanti tipi di artisti e tanti tipi di esseri umani. I miei genitori, sia mio padre che mia madre, con tutti i loro pregi ed i loro difetti, in tutta la loro vita e la loro carriera sono state due persone che hanno dimostrato di avere pudore dei propri sentimenti e del loro mondo. Per loro c’è sempre stato un punto nel quale finiva la visibilità del loro lavoro e cominciava il privato. Questo privato i miei genitori lo hanno difeso sempre, istintivamente, naturalmente. Quindi io sono cresciuta così. Pensando che questo sia un lavoro. Strano , visibile, ma un mestiere. Questo mi ha sempre dato una misura.
Mi fa piacere che lei mi attribuisca misura ed eleganza, perché sono doti che apprezzo , mentre trovo che l’esposizione dei sentimenti sia pornografica. Molto più pornografica e squallida della pornografia reale.
Non faccio fatica a difendere il mio privato, mentre mi imbarazza moltissimo qualcuno che esibisce i propri sentimenti ed è strano che tutto il mondo ritenga indispensabile questa esposizione.
Da una vita mi dicono che dovrei andare in televisione, essere su facebook, fare questo, fare quello. Ma la mia risposta è sempre: ‘scusate ma non riesco. Non è una scelta. Sono proprio fatta così. Ho la mia vita, ho due figli, che non so come ho fatto a crescere ma che non sono venuti neanche male, ma ho bisogno di uno spazio mio, privato, ritagliato a fatica, nel quale nessuno deve entrare , perché per me è sacro. Senza quello spazio non riesco a vivere. Il mio lavoro è sul palcoscenico. Il resto non conta.
Finora sono sempre riuscita a lavorare ad un livello buono, senza accettare compromessi inaccettabili e vivendo indipendentemente, senza mai chiedere niente, neanche a miei genitori, che comunque mi coprono le spalle. Ho sempre saputo vivere del mio lavoro e di questo sono fiera, ma il mio cercare di non apparire in televisione non è snobismo, ma proprio una necessità.
Mia madre, per esempio, non ha mai accettato di posare per Playboy, mentre ha accettato ‘La Chiave’, che per una attrice che aveva girato ‘Novecento’, ‘Alfredo Alfredo’, e tanti capolavori della storia del cinema italiano poteva essere molto più pericoloso. Lo ha fatto perché quello offerto da Brass era un lavoro, mentre la fotografia nuda era una invasione del suo privato. Le racconto questo per dire che io sono cresciuta con questo esempio, con una madre capofamiglia, che non ha mai avuto un uomo dietro di sé, che ha fatto tutte le sue scelte da sola, che ha cominciato a lavorare a quindici anni, ha avuto me a diciotto, mio fratello a ventisette. Lei per me è stato un esempio e la mia indipendenza e la mia libertà non sono merito mio, ma vengono direttamente da mia madre. Da quello che lei ha fatto concretamente nella vita, da come ha vissuto. Questo è importante: dare l’esempio vivendo le cose. Non contano le parole, contano i gesti. Lo dico pensando alle madri. A quelle dei maschi ed a quelle delle femmine. Perché è fondamentale il ruolo della madre, di come si fa trattare, del rispetto che richiede, dell’indipendenza con cui vive, della possibilità che ha di fare delle scelte. Tutto questo fa la differenza perché offre un esempio, sia per una ragazza che un domani non penserà che un uomo le risolva la vita, sia ad un maschio, che se non ha mai mancato di rispetto a sua madre, non penserà mai di mancare di rispetto ad una donna.
Cosa le piace della fatica di affrontare ogni sera un pubblico diverso?
E’ la mia natura. Io sono nomade di natura. Ho odiato la scuola, senza rimpiangerla mai, perché per me andare tutte le mattine nello stesso posto, con le stesse persone, è una cosa che mi fa impazzire. Non potrei fare un lavoro che preveda di rimanere sempre nello stesso posto con le stesse persone tutti i giorni. Certo è faticoso girare, spostarsi, perché dopo tre mesi di tournée non vedi l’ora di dormire nel tuo letto, mangiare a casa, ma io arrivo a casa, sto cinque giorni in grazia di Dio e poi mi dico ‘ va be’, ma ora?’. Non è una caratteristica di tutti gli attori, perché ne conosco alcuni che detestano la vita nomade, ma nel mio caso è una peculiarità insita in me. Il teatro per me è stata una fantastica scoperta, perché ho capito che mi fa bene, che è l’unica cosa che riesce a quietare una specie di motore acceso che ho sempre avuto dentro.
Programmi futuri?
Teatro, teatro, teatro. Per le prossime due stagioni avrò due spettacoli diversi, con una pausa da Teatro Azzurro, con il quale ritornerò a collaborare presto. Se tutto va bene sarò impegnata fino a tutto il 2024 con il teatro.
Ed i sogni futuri?
Vorrei continuare a fare il mio lavoro e fra qualche anno mi piacerebbe poter lavorare con un gruppo fisso di attori, nel quale siano inseriti anche ragazzi con qualche difficoltà. Non è un atto di generosità verso gli altri, ma una cosa che credo farebbe bene a me, ma per farlo dovrei essere stanziale e finora l’ho sempre rimandata.
Chiudiamo con una curiosità: cosa le piacerebbe trovare in una recensione di un suo spettacolo e cosa invece le dà fastidio leggere ?
Una volta uno spettatore mi ha detto una cosa che mi è piaciuta molto: che per lui la mia presenza in uno spettacolo era la garanzia che lo spettacolo valesse la pena di essere visto. Quello che invece non mi piace è quando mi dicono ‘ tu brava, ma lo spettacolo brutto’, perché credo che tutto quello che si fa in scena si fa insieme. In teatro non sei da solo neanche quando fai un monologo; tutto è frutto del lavoro di gruppo. Se sono brava io, devono essere bravi anche gli altri e viceversa.
Uno spettacolo può essere più o meno riuscito. Lisistrata, per esempio, seconde me è uno dei più riusciti fra quelli che ho fatto. Se io lo vedessi in sala, uscirei felice. Ma questo non dipende da me, ma da moltissime variabili che in questo caso, a mio parere, si sono incrociate nel migliore dei modi, permettendoci di offrire in un tempo difficile come il nostro, uno spettacolo leggero, che riesce a far pensare divertendo.
Gianluca Macovez
1 dicembre 2022