Tra le personalità d’arte con cui il Teatro di Roma condivide da diverse stagioni la volontà di innescare riflessioni per interpretare il mondo e farsi cassa di risonanza del nostro tempo, Massimo Popolizio è artista coerente e fondante del progetto artistico per un rinnovamento della tradizione da porgere nella sua vivezza anche alle nuove generazioni. La sua maestria interpretativa e sapienza registica tornano sul palco del Teatro Argentina, dal 6 al 18 dicembre, con la ripresa di Furore, prestando corpo e voce al capolavoro scritto da John Steinbeck nel 1939, e adattato per la scena da Emanuele Trevi, recente premio Strega 2021.
Un successo coproduttivo del Teatro di Roma con la Compagnia Umberto Orsini, apprezzato da un pubblico vasto, sempre crescente, che calca le scene dal 2019 e viene, oggi, riproposto per restituire la forza e la potenza di uno spettacolo di travolgente attualità, che ha saputo impregnare di verità umana le pagine di un capolavoro della narrativa americana. Epico affresco della Grande Depressione, che racconta una delle più devastanti migrazioni di contadini della storia moderna, attraverso un viaggio di sfinimento, sopraffazione, paura e speranze verso la terra sognata della California. Una trama che si snoda fra migrazioni, povertà e crisi sociale, e che Massimo Popolizio fa risuonare in un flusso narrativo fatto di fame, esilio, alluvioni, corpi esausti, cataclismi climatici, polvere e semi di quel “furore” che cresce sempre più. Lo spettacolo diventa una ballata blues, dolce e furiosa, amplificata dalle suggestioni sonore del polistrumentista Giovanni Lo Cascio e dalle immagini immortalate eternamente dalle fotografie di Dorothea Lange e Walker Evans, per immergere lo spettatore nella fragile umanità e nel tragico destino di un popolo, umiliato e prostrato, senza terra e nella povertà più assoluta, ma che non si arrende nel suo viaggio, senza ritorno, verso la sopravvivenza. Massimo Popolizio suona con le sue parole le pagine-mondo dello straziante esodo dei braccianti dalle regioni centrali degli Stati Uniti, costretti a lasciare le proprie terre e attraversare la Route 66, in seguito alla Depressione del ‘29 funestata da crisi agricola, economica e sociale.