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La mite parla, quando è ormai troppo tardi

Recensione dello spettacolo La mite in scena al Teatro Dell’Orologio dal 9 al 12 febbraio 2017

La mite è un racconto tanto breve quanto intenso di Fedor Dostoevskij: narra la storia di un arido proprietario di un banco di pegni, che decide di scrivere la storia del suo tormentato rapporto con “la mite” - così è definita la giovanissima moglie - all’indomani del suicidio di lei. Cresciuta nella più assoluta povertà da due grette zie, la ragazza tenta di migliorare la propria condizione attraverso il mestiere di istitutrice: ma per riuscire nel suo intento è innanzitutto costretta a pagare la pubblicazione di un annuncio di lavoro.

L’unico modo per farlo è impegnare le proprie misere cose. È così che incontrerà il suo futuro marito: lui la noterà  proprio per il suo atteggiamento remissivo e silenzioso, divenendone in breve tempo ossessionato. La giovane, di contro, deciderà di accettare la sua proposta di matrimonio per sfuggire a un viscido bottegaio a cui le zie vogliono prometterla: in breve l’accordo è siglato, ma l’unione non regalerà a nessuno dei due la gioia sperata.

La mite originariamente è il monologo di un uomo distrutto dal dolore per non aver nemmeno provato a vivere degnamente l’amore di cui si dichiara vittima. Il regista César Brie, che cura anche la drammaturgia di questo spettacolo, decide però di dar finalmente voce anche alla  protagonista: così la fanciulla ormai morta diviene una sorta di coscienza che irrompe nei ricordi del vedovo, correggendone la versione e inchiodandolo allo squallore della loro vita insieme. Pochissimi sono gli elementi in scena: un paio di sedie, una bambola che riprende le fattezze della protagonista e ne rappresenta il doppio, un tavolo. Quel tavolo che, invece di essere elemento intorno al quale riunirsi nella convivialità del quotidiano domestico, è letto, facciata di una casa, strada desolata e, soprattutto, catafalco. Attraverso queste e altre semplici ma efficacissime soluzioni drammaturgiche, la compagnia Teatro Presente mette in scena una tragedia dell’incomunicabilità dove si è soli anche in due, ognuno con il proprio insostenibile bagaglio interiore. 

Daniele Cavone Felicioni, grazie al grande talento e ai tratti caravaggeschi, riesce a incarnare alla perfezione un personaggio complesso e molto distante dalla sua reale età: lo fa dosando con cura gli accenti drammatici e le espressioni corporee della più sorda disperazione, guidando e confondendo lo spettatore nei meandri della sua meschinità sentimentale. Clelia Cicero regala una prova superba, a suo agio com’è nei panni di colei che non disse nulla da viva ma ha così tanto da raccontare al suo involontario e ormai dolente carnefice. I due attori si incontrano e scontrano aiutati da una fluidità dei gesti che, simile a una danza, crea un modo nuovo di dire l’indicibile: quell’indicibile di cui la mite è morta, mentre per colui che la piange è solo tardiva espressione.

 

Cristian Pandolfino

12 febbraio 2017

 

Leggi l'intervista a Clelia Cicero e Daniele Cavone a questo link: https://www.laplatea.it/teatro/interviste/3231-clelia-cicero-e-daniele-cavone-felicioni-la-mite-cesar-brie-teatro-presente-e-tutto-il-resto

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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