Rileggendo le recensioni degli scorsi mesi alla luce degli eventi attuali, la riflessione si dispiega su due fronti paralleli: da un lato emerge chiara l’evidenza di ciò che è assente, dall’altro diventa ingombrante la presenza di tasselli che la quotidianità frenetica permette troppo spesso di accantonare.
Una fra le questioni sollevate in questi giorni riguarda la necessità del teatro e l’ingiustizia del ritardo nelle riaperture delle sedi designate agli spettacoli dal vivo.
Probabilmente la ragione che più impone la necessità di affrettare la riapertura dei teatri è il bisogno di recuperare un luogo in cui la sospensione del quotidiano è concessa, in cui i pensieri veloci possono essere fermati, per dedicarsi alla riflessione e autoriflessione di ciò che è più grande, meno immediato, ma più reale dell’immediatezza.
Gli spettacoli dunque che ho deciso di ricordare e rileggere nella clausura di questi giorni sono quelli che parlano delle relazioni, disfunzionali e non, del desiderio di ricostruirle, della necessità del teatro e del bisogno assoluto di uno sguardo autoriflessivo; elementi vitali da non dimenticare quando il meccanismo ricomincerà a muoversi.
Come nel caso di N.E.R.D.S.- Sintomi del teatro Filodrammatici, che oliando la materia in scena con un black-humour pungente, parla di un tema scottante nelle dinamiche delle relazioni umane: il Non Erosive Reflux Desease, il reflusso non erosivo, ovvero il classico bruciore di stomaco fastidioso e apparentemente innocuo che affligge tutti i protagonisti dello spettacolo e che sedimenta senza esplodere nelle piccole nevrosi del quotidiano.
L’invito è dunque quello di curare il bruciore sedimentato, non farsi sopraffare dai rapporti, ma utilizzare questo tempo dilatato per curarli, correggerli con la lentezza imposta, esponendo i bruciori per spegnerli.
Il secondo spettacolo che ho deciso di recuperare, e mi è sembrata quasi una scelta obbligata, è stata La Commedia della vanità per la regia di Claudio Longhi, dal testo omonimo di Elias Canetti.
La Commedia della vanità è lo spettacolo del rogo degli specchi, della società distopica in cui guardarsi è vietato, in cui una popolazione stremata da una situazione portata all’estremo cerca vie disperate per rintracciare la propria immagine negli occhi degli altri.
Ad inizio febbraio uscendo dal Teatro Argentina di Roma mai avrei pensato che la distopia canettiana avrebbe potuto assumere il significato che assume adesso. La quotidianità della quarantena impone un nuovo approccio alla vanità, con il rischio di ripiegarsi in un rassegnato rifiuto di curarsi della propria immagine: se il mondo fuori è fermo che bisogno c’è di guardarsi?
In questo caso allora, più che un invito vorrei proporre un’ode alla vanità, ricordando che le forme sane di riflettenza sono ciò che permettono di riconoscerci negli altri: la nostra immagine è il patrimonio più importante di cui siamo in possesso, e Canetti e Longhi ci insegnano che l’oblio dell’auto-raffigurazione, come il suo eccesso, sono la strada maestra verso un’aridità relazionale troppo spesso dietro l’angolo.
L’ultimo riferimento vorrei dedicarlo ad un allestimento peculiare, una fiaba contemporanea, ma realissima che mi sembra importante ricordare in questi giorni in cui le porte dei teatri sono chiuse e le quinte sono silenziose.
Sto parlando di Teatro Delusio dei Familie Floz, una spassionata dichiarazione d’amore per il teatro e per chi ci lavora.
Lo spettacolo racconta la storia di ciò che accade dietro le quinte vista attraverso gli occhi incantati e incantevoli del racconto fiabesco, i personaggi in scena indossano delle maschere e non parlano, ma la narrazione scorre chiara e universale, riuscendo a commuovere anche lo spettatore nascosto nell’ultimo posto all’angolo della platea. In giorni in cui si parla di Netflix della cultura, ricordare la magia di Teatro Delusio può aiutare a capire che l’incanto del teatro non può essere chiuso nella scatola della riproducibilità e qualsiasi piattaforma alternativa rappresenta solo un palliativo per un’assenza che non vediamo l’ora di colmare.
Mila Di Giulio
22 aprile 2020