Difficile definire Oriana Fiumicino in poche frasi. Se ti capitava d’incontrarla anni fa alla facoltà di Lettere e Filosofia, dipartimento Discipline dello Spettacolo, potevi osservarla impegnata a costruire una maschera di cuoio per lo Zanni della Commedia dell’Arte. Qualche anno più tardi, se accendevi la radio e capitavi sulla frequenza di Radio Deejay o successivamente di Radio Capital, potevi ascoltare la sua voce accompagnarti nelle ore del mattino, mentre sceglieva i brani più adatti ai tuoi gusti. Se invece ti trovavi a Milano e andavi a una delle serate del Playback Theatre (clicca qui per leggere l'articolo) ecco che tra gli attori della compagnia I lunamboli c’era anche lei. Qualche anno dopo, potevi vederla recitare sul palco De fame – se non chiedi non sai, testo di teatro narrazione da lei scritto e interpretato, sulla fame che attanagliava i romani nei terribili anni dell’occupazione nazista. L’incontro con il musicista Roberto Pentassuglia e con la sua chitarra, le permette di ritrovare la musica, il ritmo, il respiro appropriato ad accompagnare e sostenere le sue parole. Il testo dello spettacolo WOP – Quando gli italiani erano WithOutPassport, sulle migrazioni italiane in America di fine ‘800, è finalista al premio di drammaturgia femminile “Donne e teatro” e vince il premio “Bianca Maria Pirazzoli” sempre per la drammaturgia. Nel frattempo la Fiumicino si specializza in Teatro Terapia, consegue l’abilitazione all’insegnamento di lettere per la scuola media, ma quando in libreria si imbatte nella storia di Nicolò Azoti, sindacalista ucciso dalla mafia, non resiste alla tentazione e scrive per lui il corto teatrale Il cappotto.
Qual è il comune denominatore che lega tante e tali esperienze?
Credo che il denominatore comune sia la Parola. Tutto quello che faccio nasce dal bisogno di comunicare e molta della nostra comunicazione passa attraverso la Parola, quella stampata sulle pagine di un libro, quella che passa attraverso un microfono, quella lanciata in classe sperando che arrivi a destinazione e anche quella non detta, quella che non diventa voce ma si fa corpo. Uno sguardo, una carezza, un abbraccio sono l’essenza dietro le parole.
Raccontaci del tuo ultimo progetto in radio, la trasmissione "Incipit"
Incipit è stato per me come tornare a casa, dopo tanto tempo. Per anni la radio è stata veramente la mia casa e tornarci ora mi dà una grande emozione. L’idea di Incipit è nata durante il lock down, che è stato per me un momento di riflessione, che mi ha permesso di unire insieme tante parti che mi appartengono ma che vivevo come passioni separate: la radio, i libri, la narrazione. Quando ho capito che potevo cucirle insieme ho comprato un microfono, un mixer, chiesto aiuto agli amici “radiofonici” e in poco tempo è nato questo programma che inizialmente era solo un podcast, ora invece va in onda su Radio Alta di Bergamo. Racconto libri, incontro gli autori, leggo gli incipit dei volumi che presento e devo dire che mi diverto davvero tanto.
Cosa riporti di tutto questo ai tuoi alunni a scuola?
Prima di tutto riporto in classe tanta energia. Un professore contento sorride e questo è un buon viatico per chi come me da anni viaggia accanto a ragazzi di dodici o tredici anni. Poi ovviamente Incipit mi offre l’occasione di rimanere informata sulle novità editoriali da proporre ai miei studenti che sono abituati a leggere davvero molto. Non solo, con i miei ragazzi ogni anno sperimentiamo qualcosa di nuovo: dalle letture animate dei libri alla realizzazione di video, a spettacoli teatrali; e prima o poi farò con loro una radio. Tutto questo contribuisce a creare legami profondi tra gli studenti e a creare ricordi a cui sono sicura torneranno quando avranno bisogno di ritrovare certezze dentro di loro. La scuola è un luogo di sperimentazione per tutti: per gli studenti che fanno prove di simulazione di futuro, per noi insegnanti chiamati costantemente a fare da ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Il tuo ultimo corto teatrale, "La schedina" è poi diventato un libro. Pubblicato da Tempesta Editore, si intitola "La Ics". Siamo ormai abituati a rievocare, tramite le tue parole, ricordi dell'Italia che fu. Qual è stavolta la storia che ti ha incuriosito?
Questa domanda ha bisogno di una premessa. Parlando prima della scuola ho detto che gli insegnanti sono ponti tra il passato e il futuro. Ecco, io credo che anche le storie che scrivo, o che racconto su un palco, siano ponti. Non sono storie qualunque quelle che scelgo, sono vite che ai miei occhi possiedono quell’energia per costruire una nuova strada, un nuovo modo di pensare o di essere.
Nel mio romanzo “La ics” per esempio scrivo di Massimo Della Pergola l’inventore della schedina. Quello che mi ha colpito della sua storia è che questa idea dell’1, X, 2 è arrivata in un momento della nostra storia in cui sarebbe stato lecito lasciarsi andare. Della Pergola era ebreo proprio quando gli ebrei erano destinati ai campi di sterminio. Per sfuggire alle leggi razziali italiane raggiunge la Svizzera dove, invece di trovare la libertà, viene internato. Chiunque avrebbe potuto cedere, lui invece medita l’idea di un gioco che farà la storia dell’Italia non solo perché porterà milioni di persone la domenica al bar a giocare la schedina, ma anche e soprattutto perché decide che parte dei ricavati delle giocate saranno destinati alla riedificazione di palestre, campi da gioco e palazzetti dello sport. Ecco, questa idea di partecipare alla ricostruzione del nostro Paese distrutto dalle bombe, era il ponte che cercavo. “La Ics” racconta storie come queste, storie che nascono da mie ricerche personali e poi prendono vita sul palco. Non ho bisogno di molto, a teatro sono seduta su una sedia e racconto accompagnata dalla chitarra di Roberto Pentassuglia.
La storia fa tutto il resto.
Cecilia Moreschi
24 gennaio 2021