Recensione dello spettacolo Bartleby, in scena dal 25 al 27 Novembre 2016 al Teatro Brancaccino di Roma
I Muta Imago tornano in scena al Brancaccino con uno spettacolo in prima nazionale, e già tanto sarebbe dire che si tratti di un esperimento controverso e dibattuto. Bartleby è ben oltre la soglia dell’ambizione, di quell’enigmaticità plurisignificante che può piacere o meno. L’effetto conseguito è piuttosto, e spiacevolmente, un altro.
Il testo, che si ispira all’omonimo racconto di Herman Melville, è, nella sua composta e, solo apparentemente, immobile linearità, un seduttivo meccanismo di cattura, e lo scrivano protagonista è certo un attrattore. Peccato che questo affascinante proposito non abbia sortito alcun effetto sugli spettatori seduti in platea, ma sia piuttosto rimasto inamovibilmente asserragliato alla grandezza letteraria del romanzo e delle parole scritte sui pezzi di carta. Non c’è vita sulla scena, malgrado paradossalmente non si parli altro che di questo. L’immaginazione dell’autore non riesce a librarsi oltre le pagine, restandovi al contrario intrappolata, ma non solo: assiste all’omicidio di se stessa, attraverso una messa in scena lenta, funeraria e monotona. Interessante e ammirevole l’intento di destrutturare l’architettura di un teatro tanto contemporaneo quanto sempre più frequentemente ornamentale, per rintracciarvi piuttosto al suo interno la materia prima e viva delle parole e delle immagini. Il risultato finale, tuttavia, non sembra appagare le aspettative. Quel prezioso minimalismo che contiene gli antichi echi di una tradizione teatrale lunga secoli, semplicemente fatto di una storia, una voce che possa raccontala e un orecchio che voglia ascoltarla, si tramuta irrimediabilmente in una rappresentazione oltremodo fiacca e allentata.
La scena è vuota, ma non è certo di un problema fisico che stiamo parlando. Non dopo molto dall’apertura del sipario, lo spettatore viene abbandonato, si scopre da solo, messo seduto davanti ad una radio che parla ma non arriva. Ogni remota possibilità di allacciare un legame viene tagliata, lo spettacolo non sembra neanche essere stato fatto per lui, che si sente, al contrario, uno scomodo ospite, capitato per sbaglio in casa di qualcun altro.
Le istallazioni visive, che modellano parte dell’identità della compagnia, non sono abbastanza per colmare quello che il racconto non riesce a riempire. Intrigante l’idea di esporre le proiezioni su quello che sembra, a tutti gli effetti, simulare uno skyline tipico newyorkese; ciò nonostante, il solo espediente non basta ad assegnare ai personaggi e alla loro azione un degno ed appropriato scenario.
Che sia forse questo l’obbiettivo artistico e innovativo di Bartleby? Stimolare nel pubblico quella recondita esigenza di inventare, di plasmare una storia a proprio piacimento, di creare lui stesso lo spettacolo da mettere in scena?
Perché, sicuramente, la fantasia di molti tra gli spettatori si è vista impegnata per circa un’ora nel tentativo di conferire alla storia un epilogo molto più seducente
Giuditta Maselli
03/12/2016
.