Recensione dello spettacolo Gl'innamorati in scena al Teatro Brancaccino di Roma dall'1 al 4 dicembre 2016Un evergreen del palcoscenico e della vita di tutti i giorni. L’amore, quello vero, quello che fa fare cose stupide e (im)possibili, quello che “non è bello se non è litigarello”, l’amore che ispira da secoli artisti, poeti e drammaturghi torna ad essere rappresentato con un classico dei classici: Gl’innamorati di Goldoni.
Da quasi trecent’anni in tournée, la travagliata storia d’amore tra Eugenia e Fulgenzio fa una breve sosta, fino a domenica 4 dicembre, al Teatro Brancaccino di Roma. Per raccontare le dinamiche tragicomiche che animano il rapporto amoroso tra un uomo e una donna e che, al di là delle epoche e dei protagonisti, restano pressappoco le stesse dai tempi di Adamo ed Eva. Due universi così distanti e inconciliabili eppure a tal punto complementari da non poter fare a meno dell’altro.
Da questa distanza, che quanto più divide, tanto più avvicina, riparte la riscrittura in chiave contemporanea di Fabrizio Sinisi. Gl’innamorati, diretti da Gianpiero Borgia, protagonista sul palcoscenico insieme a sua moglie Elena Cotugno, non vuole essere una semplice rivisitazione dell’opera goldoniana. La traccia classica resta, ma i due personaggi si fanno inevitabilmente portavoce del tempo e dei luoghi di cui sono figli, mentre il testo di Fabrizio Sinisi dà il via al “Progetto Goldoni” sulla trasposizione in chiave moderna e meridionale della commedia.
Non siamo più nella Milano del XVIII secolo, ma nel Mezzogiorno di oggi, in Puglia per l’esattezza, come si evince dal primo scambio di battute e dall’inflessione dialettale dei personaggi. Due, non dieci come nella pièce originale. Sul palcoscenico ci sono solo loro: Eugenia, erede di una famiglia in rovina, e Fulgenzio, il ragazzo che per lei ha perduto la testa. Si amano, non c’è dubbio, eppure non riescono a rinunciare alla gelosia, al bisogno costante di conquistare e possedere l’altro e alle furibonde liti che ne derivano, fino a correre il rischio di rovinare e mandare all’aria tutto.
Eugenia è ossessionata dalla presenza (quasi immaginaria) della cognata di lui, Clorinda, di cui veniamo a conoscenza solo attraverso le descrizioni e i discorsi della coppia; Fulgenzio, dal canto suo, non riesce a restare impassibile di fronte alle avances che il facoltoso Conte Roberto (a cui Borgia presta il volto) fa alla sua bella. Ed è subito guerra, letteralmente.
Il rimando al campo di battaglia è immediato: lo capiamo dai sacchi di sabbia che cingono la scena-trincea o per meglio dire la vita privata dei due protagonisti, dall’elmetto-copricapo di Fulgenzio, dalle giubbe-soprabito di entrambi e come se non bastasse dalle armi potenziali (i coltelli da cucina) o reali (la pistola carica) con cui si rincorrono e minacciano di farla finita. Perché al centro della scena c’è sì l’amore, ma l’amore inteso come guerra e contrasto, vera e propria forma di combattimento tra uomo e donna.
A mettere duramente alla prova la relazione tra i due non è la famiglia, sebbene più e più volte Zio Fabrizio, tutore legale di Eugenia, abbia provato a spingerla tra le braccia del ricco Conte, così da ripagare i debiti. A portare i due (quasi) alla rottura è l’amore stesso, con i suoi sentimenti contrastanti, con quei vizi e quelle abitudini in cui è, forse, ancora più facile riconoscersi ai tempi delle storie su WhatsApp. Ed è proprio tra un concitato dentro-fuori del personaggio e una rissa linguistica di troppo che ci si ritrova, tra una risata e l’altra, ad applaudire al trionfo dell’amore, quello vero, quello che fa fare cose stupide e impensabili, quello che “non è bello se non è litigarello”.
Concetta Prencipe
4/12/2016