Recensione dello spettacolo Qui e ora in scena al Teatro Ambra Jovinelli dal 15 al 18 dicembre 2016
“Trovo interessante che il pubblico rida, si diverta, e poi salga in macchina facendo riflessioni più profonde”. Mattia Torre
Una brusca frenata, lo stridere delle gomme sull’asfalto. Un fischio che preannuncia il disastro, la fine. E poi il botto. Lo schianto. L’impatto. Come quello delle corde della racchetta che sta per colpire la palla da tennis, il punto di concentrazione massima del “qui e ora” dove tutto ciò che c’è intorno svanisce, non conta più nulla.
Il sipario si apre su lamiere ancora fumanti di due scooter incastrati tra loro come le corna di due cervidi, fotografia del momento d’arresto della loro corsa. A terra, tra guardrail ammaccati e un segnale verticale che ammonisce di dare la precedenza, ci sono altrettanti due uomini. Uno è a faccia in giù, completamente immobile, l’altro, quello che sembra essere messo meno peggio, si rialza a stento con un dolore lancinante alla caviglia. Lo squillo insistente del cellulare lo ridesta dalle sue sofferenze e lamentele. “Gigio, tutto a posto. Sono quasi arrivato sotto casa tua, sarò lì tra poco”. Lui è Aurelio Sampieri (Paolo Calabresi), chef che dispensa consigli e prelibatezze culinarie nel programma radiofonico Qui e ora, ed è in ritardo perché a quell’ora doveva già trovarsi in radio per la messa in onda. Prima ancora di chiamare i soccorsi perde del tempo a rimbrottare l’uomo svenuto a terra, vittima dell’incidente come lui e ignaro di quanto sta accadendo. Si ridesterà solo dopo dieci minuti buoni, un po’ perché sente dolore alla testa e un po’ (anche) perché l’altro non la smette un attimo di scaricargli colpe e responsabilità dell’accaduto, condite da insulti e pregiudizi. Claudio (Valerio Aprea) lo starà ad ascoltare per un tempo lunghissimo, senza (avere) la possibilità di ribattere, vittima non solo del sinistro ma anche delle sopraffazioni da parte di Aurelio. Intanto prende a squillare in continuazione anche il suo cellulare, è sua madre che lo chiama perché vuole invitarlo a pranzo per assaggiare la sua ultima ricetta, Claudio le mente, dice che sarà per un’altra volta oggi non fa in tempo; mentre dall’altro lato (dopo aver avvisato l’amico Gigio dell’incidente ed essersi messo in contatto con Antonio, il capo) assistiamo al programma radiofonico in diretta dal cellulare di Aurelio, che non vuole essere messo all’angolo da nessun altro avversario per sostituirlo alla conduzione della trasmissione.
Siamo alla periferia estrema di Roma, è il giorno della festa della Repubblica e Aurelio chiama più volte i soccorsi che stentano ad arrivare. I due uomini sono soli, nessun aiuto da nessuno, nessun testimone che ha assistito all’infortunio e i cellulari che poco a poco si scaricano. L’alternativa è quella di aspettare che si faccia vivo qualcuno, o morire. In ambedue i casi per un tempo – che per loro e per il pubblico in sala – che sembra infinito, Aurelio e Claudio restano in sospeso nel limbo dell’attesa alla fine del quale si compirà il loro destino; nel frattempo, giustappunto per ingannare il tempo, “scambiano due chiacchiere” tra offese e sproloqui (in maniera comica, in verità). Mentre lo spettatore è convinto di sapere tutto sul cinico Aurelio, scoprirà solo verso il finale chi è e di cosa si occupa l’ordinario Claudio (anche se sarebbe più corretto dire di cosa non si occupa), e del perché del titolo Qui e ora, che sembra avere poco in comune col tennis ma che, come spiegherà lo stesso Claudio nel corso della rappresentazione, ha molto a che fare con quella frazione di secondo in cui racchetta e palla si toccano tra loro innescando l’impatto.
Qui e ora è uno spettacolo duro, spietato, caustico, che si spinge ai limiti della ferocia dominante ai nostri tempi. È lo scenario perfetto di una società che ci ha imbastardito, che ci ha spogliato non solo del denaro ma anche dei sentimenti che non sono umiltà, carità, generosità e pietà; è il prodotto di una civiltà indifferente alle richieste di aiuto, che ha smesso di conoscere e comprendere i propri simili, che li ha resi bestie (un termine che ricorrerà spesso sulle labbra di Aurelio) affamate di brame di potere e potenza il cui unico scopo è distruggere e spazzare via gli anelli più deboli della catena. Qui e ora è una lotta per la sopravvivenza umana, di chi sta dentro e fuori il confine (emblematica la scelta del regista Mattia Torre di ambientare la vicenda alla periferia della città), l’insieme di frammenti fatti di bugie che falsificano la verità e diventano realtà, che costruiscono maschere e ombre attorno all’individuo celandone la vera natura facendone fuoriuscire solo veleni e spregevolezze, una lotta volta all’annientamento dell’altro, una giungla dove l’animale più forte colpisce e ammazza l’animale più debole.
Qui e ora è questo e tanto altro nel testo di Mattia Torre, un testo impietoso, febbrile, ansiogeno, grottesco, spennellato di battute tragicomiche, ma che evidenzia come la cattiva condotta e gestione di un Paese affetto da criminalità organizzata e corruzione finisce col generare non solo confusione, ma antipatia, sfiducia e alienamento nei confronti del prossimo e di se stessi.
Costanza Carla Iannacone
19 dicembre 2016