Recensione dello spettacolo Natale in casa Cupiello, in scena dal 20 Dicembre 2016 al 4 Gennaio 2017 al Teatro Argentina di Roma
Quella di Latella non è semplicemente una riproposizione contemporanea di un testo storico con cui Eduardo ha segnato una grande fase della drammaturgia teatrale italiana, bensì il disseppellimento dell’organo più livido e aspro che l’autore incastra in un corpo del quale, invece, si evidenziano spesso solo emozionalità e passione.
Il grande merito del regista sta appunto in questo, nel liberarsi della fiacca abitudine dell’ovvietà ed esasperare le indoli più cupe, scorticando via dal testo, beffardamente proposto, nel primo atto, con un’impertinente aderenza alla scrittura di Eduardo, dalla quale non sono esentati neanche accenti gravi e acuti, tutto quanto sia bonarietà e romanticismo. La scena stessa è visivamente spoglia, il tradizionale e rassicurante habitat edoardiano scompare, trasformandosi in un nudo campo di battaglia per un gioco crudele e raccapricciante e gli esseri umani sono belve indomite obbligate, contro propria natura, ad un’disciplina forzata, ad un perbenismo socialmente costruito e ingoiato controvoglia, come rammenta irremovibilmente una maestosa e imperturbabile stella cometa che oscilla sulle loro teste, e che ci ricorda che a Natale dobbiamo essere tutti più buoni.
La forzatura, allora, non è contro Eduardo, della cui inviolabilità in molti si sono fatti paladini, alzando un opprimente muro di polemica ed ignoranza contro l’approccio sperimentale ed innovativo di Latella, ma lo è piuttosto, e per l’appunto, contro l’idea di massa che oggi il pubblico possiede del lavoro di De Filippo. Non è, dunque, questione di fedeltà o infedeltà nei confronti di un modello ineguagliabile, al contrario la sfida del regista sta proprio nella capacità e nella scelta di far risaltare gli aspetti nascosti, e in genere ignorati, dell’autore. Nel secondo e terzo atto, infatti, la trama persiste a ridursi in un asciutto e scheletrico compendio narrativo, mentre si ergono in alto i veri protagonisti dell’azione, i simboli che padroneggiano la scena, carichi di autorevolezza espressionistica, come gli enormi animali di peluche, che sembrano le versioni mostruosamente ingigantite delle statuine del presepe, da cui traspare tutta l’esigenza del pater familias, Lucariello, di riunire, attraverso la tradizionale celebrazione del Natale, una famiglia che, in realtà, è sull’orlo della più totale sfaldatura. Chiuso nella sua gabbia di vetro, Luca Cupiello non vede e non sente, la sua realtà alterata offusca ai propri occhi l’amara verità di una famiglia che, sotto la crosta, nasconde quanto vi è di più marcio. Gelosia, tradimento, disperazione e solitudine si dimenano nei corpi sfiniti dei loro possessori, a colpi di mitragliatrice le relazioni si accasciano a terra, le carcasse di tutti, come di quei pupazzi scarnati e putrefatti, si battono in un duello all’ultimo sangue, grande macelleria umana, trasformandosi in cibo per i vermi. Ma Luca tutto questo non lo vuole sapere, ed ecco allora il rintocco costante delle parole di Eduardo, il bisogno di ricominciare, di ricostruire il presepe distrutto, riassemblare insieme quei cocci, e in questa sicura bolla di sapone si abbandona, mentre a Concetta non resta altro che incassare silenziosamente i colpi, trascinandosi dietro gli sfoghi di ognuno, le responsabilità e i ruoli degli altri. Tanto fa che, sul concludersi dello spettacolo, è nel presepe stesso che viene inglobato, a metà tra un bambinello nella culla e un Cristo morente tra le braccia della madre, come l’immagine dei parenti riunita attorno al letto del capofamiglia in fin di vita lascia chiaramente intendere, tramite anche un’efficace richiamo alla Pietà di Michelangelo.
Il Natale di Latella procede lungo questo binario; è denso, dissacrante, a suo modo esaltante ed encomiastico se volessimo intendere la totale destrutturazione di un testo come atto re-interpretativo ed elogiativo. Il regista è, in tutto e per tutto, al servizio dell’autore, che mai prima di oggi è stato tanto contemporaneo. Latella guarda dentro Eduardo, butta giù la scenografia, i costumi, la velina opaca stesa sul capo di ognuno dei personaggi per svelarne l’anatomia più sanguinolenta e viscerale, l’amarezza edulcorata, vomitando fuori, senza alcun pudore e vergogna, tutto quanto Eduardo ha invece voluto nascondere magistralmente dietro la metafora. In un certo qual modo, potremmo dire che Latella sia più irrispettoso del pubblico che del suo autore, perché non usa mezze misure, non addolcisce la pillola e non lascia scappatoia di redenzione. Anche Eduardo, in realtà, è feroce a suo modo, ma l’atto di inconfessabile pietà che fa dichiarare a Tommasino sul giaciglio di morte del genitore, con Latella si tramuta in un’inequivocabile eutanasia, senza lasciare alcuno spazio ai fraintendimenti o alle interpretazioni. Proprio per questo, l’opera di Latella non può essere sbrigativamente etichettata come bella o brutta ma resta indubbiamente di grande fascino ed interesse, capacissima di attrarre nel suo vortice di dannazione chiunque, anche chi, a primo impatto, può provare nostalgia per il ricordo dell’antico e immortale Eduardo. Il suo obbiettivo, infatti, non è certo quello di accontentare il gusto, facendo parlare di sé in modo necessariamente favorevole e positivo, piuttosto di stimolare la critica, aizzare la discussione produttiva, insegnare la nobile arte del furto come strumento di rivitalizzazione, e non invece la vile e scarna imitazione.
Eduardo non scompare ma vive, e Latella ci fa tornare ad amarlo.
Giuditta Maselli
3 gennaio 2017