Recensione dello spettacolo Il ventaglio di Lady Windermere in scena al Teatro Sala Uno Dal 21 al 22 gennaio 2017
Il ventaglio di Lady Windermere è senz’altro una delle commedie più celebri, argute e divertenti di Oscar Wilde: basti pensare che la maggior parte dei suoi celebri e dissacranti aforismi è estrapolata proprio da questo testo. Insomma, si tratta di un classico del teatro: con i suoi equivoci ben congegnati, i serrati dialoghi assolutamente brillanti e una morale antimorale finale, Il ventaglio di Lady Windermere rappresenta un vero e proprio fiore all’occhiello – sicuramente un girasole – nella produzione letteraria del geniale e sfortunato irlandese. Metterne in scena la vicenda, quindi, è un successo quasi sicuro: a meno che non si abbiano i mezzi sufficienti per manovrarne e presentarne al meglio il materiale.
Purtroppo è proprio quello che accade al Teatro Sala Uno di Roma nella versione firmata da Antonio Nobili: è un grave errore il pensare di poter rappresentare l’opulenza e l’ossessione per la forma dell’aristocrazia vittoriana a Londra con un allestimento di scena quasi improvvisato e al limite dello sciatto o recuperando costumi mal assortiti tra loro, parecchi dei quali nemmeno in grado di rispecchiare il gusto dell’epoca. E non è stata di certo una grande idea la scelta di sprecare l’irriverente e spassosissimo testo di Wilde affidandolo a una recitazione banalmente leziosa, poco sentita e, in definitiva, poco coinvolgente. Con qualche eccezione: non è certo quel papillon rosso a identificare Mr Cecil come un dandy disincantato ma la buona prova di Matteo Maria Dragone, così com’è l’espressività di Virginia Menendez a permetterle di rendere deliziosamente sopra le righe il personaggio della Duchessa di Berwick, perennemente a guardia della figlia Agatha, interpretata dalla brava Giulia Bonanni. Divertente anche l’idea di confondere i generi e giocare con l’ambiguità, affidando il ruolo di Mr Hopper ad Alice Adorni, mentre è Federico Fiordigigli a vestire gli angusti panni di Lady Jedburgh.
Il resto, tra dizioni non proprio eccellenti, qualche incertezza e lapsus nel pronunciare le battute, si lascia facilmente dimenticare: un vero e proprio peccato mortale quando c’è di mezzo il buon nome di un autore che l’ha sacrificato per vivere secondo la propria arte. Rendendo se stesso e le proprie opere assolutamente memorabili.
Cristian Pandolfino
25 gennaio 2017