Sabato, 23 Novembre 2024
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Teatro dei Conciatori: Averone tinge di onirica poesia la realtá di “aspettando godot” .

Recensione dello spettacolo Aspettando Godot, in scena dal 24 al 29 gennaio 2017 presso il Teatro Dei Conciatori di Roma

Averone sceglie il piccolo palco del Teatro dei Conciatori per osare una sfida, nuova ma da molti tentata, quella di dar voce all’assurdo immaginario di Beckett, azzardando una decodificazione di quel “niente”, di quel “nessuno” che si lasciano illimitatamente precedere da un perenne ed eterno gerundio.

La storia è, forse, a tanti già nota:
I protagonisti, Vladimiro detto Didi ed Estragone detto Gogo, due mendicanti che vivono per strada, arrivati da chissà dove e con chissà quale storia alle spalle, sono l’allegoria della condizione precaria dell’uomo contemporaneo e della sua inutile attesa di qualcosa che dia un senso all’esistenza. Sono prigionieri del tempo che passa, si dimenano e si agitano nello sforzo di accelerare il decorso della giornata, si oppongono con quanta più creatività possano trovare in corpo per ripudiare anche solo un piccolo momento di noia, ma le tattiche e gli stratagemmi non possono nulla contro la morsa dell’attesa, che rimane, in ogni caso, inevitabile. La condizione della sospensione del tempo controlla tutte le leggi del mondo, persino la memoria ne viene occultata, sicché ai due non solo accadde nulla, ma questo nulla si ripete per ben due volte. Persino, infatti, quando capita loro una vagheggiata variazione, con l’arrivo sulla scena del tirannico Pozzo e del suo schiavo Lucky, vittima non soltanto della perfidia del suo padrone ma anche dello scherno che l’ambiguità del suo nome rispetto alla misera vita a lui destinata gli gioca, il giorno successivo questa è già dimenticata, accennata come un miraggio solamente nei pensieri di Didi.

È infatti lui l’unico a proteggere un flebile chiarore di realtà, di consapevolezza, la quale è però troppo beffarda e crudele per essere accettata a sguardo pieno. Presto, infatti, si dissolve tutto, e un’altra notte cala, con l’amara certezza di quello che avverrà la mattina seguente. Sullo sfondo della scena c’è un albero stecchito, unica forma di vita nel vuoto e nella desolazione che circonda i personaggi; ma neppure l’albero può rivelarsi un simbolo di speranza, perché fa nascere in Estragone l’idea di impiccarsi. Eppure, anche questa volontà, per quanto drastica e feroce sia, è anch’essa destinata a svanire nel nulla, svuotando di tutta la sua implicita drammaticità l’atto del suicidio. È proprio in questo che Beckett ammette la grandiosità di questo fantomatico e misterioso Godot, una grandiosità che sta tutta nella sua immateriale ed utopica astrattezza, nella forza che la sua assenza riesce ad esercitare meglio della sua effettiva presenza.

La regia di Alessandro Averone si guadagna il merito di aver permesso a Beckett di riassumere nuove e più attuali parvenze, manovrando con destrezza le interpretazioni dei suoi attori (Marco Quaglia e Mauro Santopietro nelle vesti dei due protagonisti, fiancheggiati dalla squisita prova d’attore di un estroso Antonio Tintis e un detonante Gabriele Sabatini) sul sottile filo di una realtà parallela che sembrerebbe sovrapposi sempre di più alla nostra. Evidenzia, poi, con considerevole entità, il confronto fra le due coppie, quella formata da Didi e Gogo e quella di Pozzo e Lucky, ciascuna delle quali si delinea, a suo modo, con le sembianze di uno specchio, rigoroso e incontestabile, dentro il quale ciascuno scopre, riflesso, il suo opposto, il suo doppio. I personaggi, tratteggiati come dei clown, diventano un trait d’union tra la spettacolarità propria di un circo e la poesia del teatro, risvegliano l’immaginazione degli spettatori mentre evocano un mondo assurdo, che Beckett dipinge con sublime vivezza nelle sottili crepe scure che intervallano le battute brillanti, distanziando la vivacità dei colori con solchi di cruda consapevolezza; una realtà, la sua, nella quale il tentativo di fare le cose per bene fallisce quasi sempre, anzi, a fallire è l’intenzione stessa, tarpata ogni volta dall'insistente e pletorico richiamo al dovere, un dovere che, però, non si realizza mai in niente.

 

Giuditta Maselli

2 febbraio 2017

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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