Recensione dello spettacolo Il contrario di tutto, in scena al teatro Ambra alla Garbatella dal 9 al 12 febbraio 2017
Immaginiamoci Marcos. Giovane impegnato ventenne, Marcos è gagliardo. Idealista, intellettuale da trincea, rampante artista abile nella penna tanto quanto nella favella. Ammaliatore di masse, aggregatore di idee, figlio di quella rivoluzione in atto nelle coscienze prima e nella società italiana a cavallo degli anni ’70 e gli ’80, poi. Marcos: lo pseudonimo della rivolta senza armi o l’arma stessa di un movimento studentesco animato dalla nascita dell’allora nuova consapevolezza sociale che avrebbe segnato i turbolenti “anni di piombo”. Insomma immaginiamoci Marcos come tangibile entità nata dal desiderio di ribellione e rinascita contro-culturale di quegli anni.
Immaginiamocelo e…lasciamo lì, nell’immaginario collettivo e, soprattutto, nella fantasia. Già, perché, quando, come e (non)dove far riapparire “Marcos” (alias Flavio, o Flavio alias “Marcos” fate un po’ voi), ci pensa Il contrario di tutto in scena al Teatro Ambra alla Garbatella fino a domenica 12 febbraio. Ci pensa nel senso che lo pensa davvero, lo pensa e lo immagina vivo e concreto, idealizzato e metamorfizzato in…ciò che non è.
Il contrario di tutto insomma, è questo: vive in un “non luogo”, si materializza in un “non momento” definito e, più che realizzarsi, si desume nei ricordi, sfocati, accennati, spiegati, inventati e alla fine…razionalizzati e ricollocati nella sempre vera e cruda normalità dei fatti, che fa rima con realtà.
Crudo? No, tutt’altro. Il contrario di tutto è altro, infatti. È l’altra realtà, quella in cui ognuno di noi si ripara, si rifugia e in cui cerca di difendere una propria illusione, una sottile speranza che lo tenga in contatto con i sogni antichi: eccola la realtà di Adele, giovane neolaureata dalle speranze e aspettative di brillante carriera, ispirata dai racconti della madre su quel padre – Marcos il rivoluzionario, appunto – esiliato per motivi politici in Argentina. Ma, ancora, è il contrario, appunto, di questa realtà: è un uomo semplice di mezz’età che fatica a crescere, che si conosce, certo, ma che non ha ancora preso di petto, in toto, la verità e, quasi come impaurito dai ricordi, dai rimorsi e dalle difficoltà del passato, è scappato, vent’anni or sono, in Argentina, alla ricerca di una più solida illusione. Ma, ancora, è una terza realtà, ancora in contrasto con le altre due: una band, un trio (una volta quartetto) con l'ukulele la cui prerogativa principale è quella di arrangiare brani tra i più conosciuti nella storia del Rock, del Reggae, del Country e del Pop, o brani tradizionali, in chiave umoristico/cabarettistica, alle prese con una fantomatica intervista con Pippo Baudo, in quel di Sanremo, in cui ricorda il successo strepitoso avuto con un’unica canzone (scritta da Marcos, allora quarto membro del gruppo) poco prima di “esiliarsi”. Al centro, di tutto questo contrario, un diario che, se nella realtà di tutti i giorni è sinonimo di fedele cronistoria di una vita, qui, ovviamente, è l’emblema stesso del “contrario di tutto”. Insomma, il ritrovamento del diario della madre, da parte della giovane Adele, dà il via ad un ingegnoso meccanismo, fatto di sketch che richiamano alla mente quelli del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi (vedasi sezione “Telenovelas sudamericane”), di gag che sembrano improvvisate e altre ben studiate alla maniera del cabaret e della performance alla “one man show” (esilarante l’ironico flashback che, galleggiando tra un Antonio Rezza e un Enrico Montesano, il protagonista Fabio Avaro mette in scena ricordando le parole del padre) e di geniali intermezzi musicali che fanno assaporare tutto il gusto della risata amara della verità. Una ragnatela di ricordi, situazioni – smentite e non – speranze ed illusioni che si concretizzano in un limbo, in una fetta di “non-realtà” in cui l’onirico si fonde con il metafisico e nel quale il diario, onnivoro di emozioni, ricordi e sentimenti, sembra voler fagocitare i cinque geniali interpreti.
Fabio Avaro, goliardico ed intelligente, quanto ironico e scanzonato mattatore, è abile a mettere in scena un personaggio medio seppur, nella sua semplicità, geniale e dalla battuta pronta, che da giovane “cazzaro” qual era, tale rimane nell’età adulta. Vanina Marini, nei panni di Adele, è la perfetta Alice caduta nel suo personalissimo Wonderland, nel quale per anni si è immaginata un padre-eroe: bravissima l’attrice a tramutare le proprie emozioni, ad interpretare l’Adele sognatrice ma anche l’Adele reale, oltre che a calarsi alla perfezione nei momenti di ilarità che il testo, in gran numero, prevede. Infine la Banda dell’Uku che catalizza su di sé tutta la colonna sonora dell’esibizione: la marcia dei ricordi è da loro dettata con estro e genio tipico degli artisti, tipico di chi dalla musica trae e narra storia, crea e modella teatro.
La risata, certo, è la risposta a questo tipo di situazioni. Il sorriso è l’arma giusta per affrontare il cedimento del muro di certezze costruito, anche a tratti in buona fede, su una non poi così solida base di talvolta facili, talvolta articolate menzogne. Ci penserà l’ironia, il faceto, gli spunti dettati dai veri ricordi a far crollare e sciogliere quella cortina fantastica e fantasiosa che recintava un luogo talmente magico da sembrare assurdo.
Federico Cirillo
10 febbraio 2017