Recensione dello spettacolo Giovanna sotto il sego del tempo in scena al Teatro Studio 1 dal 16 al 19 febbraio 2017
Celebre e tragica sono due aggettivi con cui è facile definire l’atroce vicenda di Giovanna di Castiglia, detta “La Pazza”: figlia di Ferdinando D’Aragona e Isabella Di Castiglia, i Re Cattolicissimi, ereditò un immenso regno su cui non governò mai a causa delle trame del padre e del marito Filippo Il Bello prima, del figlio Carlo V poi. La ragione di ciò è da rintracciarsi in una tara mentale, vera o presunta, che contribuì a renderla vittima dei giochi di potere di tutti gli uomini della sua vita. Uomini che la costrinsero a vivere come una reclusa, fino imporle quasi 50 anni di durissima prigionia nel monastero di Tordesillas.
Giovanna sotto il sego del tempo vuole rievocarne la storia, narrando in maniera originale i fatti che condussero la sfortunata regina a vivere in condizioni praticamente bestiali: è prodotto dall’associazione Brema ’81, ideato e interpretato da Patrizia Bernardini, scritto da Adriano Marenco e diretto da Alessandra Caputo. Lo spettacolo è un soliloquio che passa in rassegna vari elementi biografici come il costante bisogno di attenzioni e affetto da parte di una madre rigorosissima e anaffettiva, quella Isabella di Castiglia legatissima alla religione ma spietata con gli infedeli e con chi non la pensava esattamente come lei, compresa la figlia; o il folle amore nutrito per Filippo Il Bello, amplificato e reso ancora più feroce dai continui tradimenti di lui oltre che dalla prematura scomparsa; fino ad arrivare al delirante rapporto mancato con i numerosi figli, che via via le vennero puntualmente tolti, in particolar modo quel primogenito che non avrà alcuna pietà di lei.
Purtroppo, però, il risultato non è all’altezza di temi tanto complessi: sebbene Patrizia Bernardini sia un’attrice di talento, molto dotata nel cambiare repentinamente registri e nel far percepire l’ambivalente follia del suo personaggio, la drammaturgia si rivela abbastanza insignificante. Il testo, infatti, non è particolarmente suggestivo e banalizza ogni episodio di questa straziante vicenda accartocciandosi su se stesso alla ricerca dell’effetto stravagante. Anche la scenografia di Antonio Belardi e le scelte registiche non aiutano lo spettatore a immedesimarsi: quella specie di Cubo di Rubik che vorrebbe sintetizzare gli spazi di volta in volta occupati dall’infelice monarca o significare ciò che la poveretta ha dovuto subire, più che al simbolico rimandano a una certa mancanza di mezzi. Abbastanza gratuita, invece, suona l’idea di alternare la voce naturale a quella amplificata per mezzo di un microfono tenuto in mano dalla protagonista, così come il sottolineare alcuni passaggi con vistosi rutti. Per non parlare del finale in cui la protagonista fa riferimento a un futuro di social network: un tentativo di inserire il tema della follia come capacità profetica che si risolve un innocuo sforzo di attualizzazione.
Spiace dover scrivere così di un’opera sicuramente nata con le migliori intenzioni e che deve essere costata molto impegno a tutti i professionisti coinvolti: ma se sul regno di Giovanna Di Castiglia non tramontava mai il sole, non c’è nulla che faccia brillare questa rappresentazione.
Cristian Pandolfino
17 febbraio 2017