Recensione dello spettacolo Ophelìa andato in scena al Teatro India il 28 febbraio 2017
Quello di Ophelìa può certamente definirsi un debutto nazionale travagliato: inizialmente previsto per il 21 febbraio, con replica il giorno seguente, doveva tenersi presso il Teatro Dell'Orologio. Pochi giorni prima, però, la questura di Roma chiude lo spazio per questioni di sicurezza: una vicenda talmente controversa da riproporsi continuamente nei discorsi che hanno animato Roma Theatrum Mundi – Assemblea cittadina per il teatro, un evento ospitato dal Teatro India per incentivare il dialogo tra le realtà creative indipendenti e le istituzioni pubbliche (sperando che la montagna di polvere sollevata per l'occasione partorisca almeno un topolino). Nel frattempo, i titoli in cartellone presso il Teatro Dell'Orologio rimangono senza casa e una soluzione temporaneissima viene offerta proprio dal Teatro India, che accetta di accogliere nelle proprie sale, fino al 7 marzo, queste compagnie: garantendo così uno spettacolo diverso al giorno, per 7 giorni, alle ore 19:00. In questo modo, finalmente, Ophelìa può prendere vita in scena.
Innanzitutto è bene chiarire una cosa: il titolo non fa riferimento al personaggio di Ofelia ma a una fantomatica malattia di essere lei, cioè "la malìa che prende l'attore di essere qualcun altro". Una premessa fondamentale per comprendere lo spettacolo nella sua interezza, senza lasciarsi distrarre – o infastidire – dalle infinite trovate sceniche e drammaturgiche di cui è zeppo. 4 attori si ritrovano a interrogarsi intorno all'Amleto: Giulia Fiume è Ofelia, Giuliano Peparini è Amleto, Federico Le Pera è Fortebraccio, mentre Gaia Benassi è Gertrude. Nello svolgere la propria indagine ricorrono agli strumenti più diversi, oltre che alla loro arte recitativa: un modellino della città di Elsinora, dove ogni personaggio rivive in un pupazzetto customizzato per l'occasione; una telecamera che inquadra di volta in volta i pupazzi o gli attori, proiettandone l'immagine in una tenda verticale e consentendo di seguire meglio le vicende su scala ridotta o i vari monologhi pronunciati da dietro le quinte; e ancora: pupi siciliani, un camaglio difficile da rimuovere, favole tradizionali e canzoni di Amy Winehouse riarrangiate dal vivo. Il tutto non per riscrivere Shakespeare ma per ottenere - nelle intenzioni del regista - "Una narrazione disarticolata. Come un giradischi che, nel suonare un 33 giri, s'incanti sulla stessa frase musicale: la scena dei regali. Atto terzo, scena prima. E ancora scena prima, atto terzo. Ofelia, Amleto, Gertrude e Fortebraccio raccontano, dal loro punto di vista, fatti ben noti, esumando "fessure, spiragli nella polvere". Perdendo, a tratti, la lucidità dell'oggettivazione per calarsi in anfratti non conosciuti. Non del tutto perlomeno. Provare le parole, mettersi alla prova, provare le proprie ragioni, provare a ragionare. Prendersi un periodo di prova. Sul banco di prova. Provare in costume, la scena. Cercare la prova del nove, fino a prova contraria. Mettersi a dura prova. Le prove fisiche, chimiche, di resistenza, di rendimento, di fatica, di stabilità, di velocità. Le prove di volo. Ecco, quelle sono imprescindibili. Esercitarsi al pensiero insomma. Quale migliore abitudine?"
Stando così le cose non stupisce che il principale difetto di Ophelìa risieda nell'incapacità di rinunciare alle idee accessorie o gratuite di cui ci si è innamorati, ad esempio l'ansia di esibire i bei corpi di chi calca il palcoscenico o uno sconclusionato attimo dialettale italiano. Finendo per saturare l'occhio di chi guarda e diluire i molti splendidi momenti - valgano per tutti il monologo di Gertrude circa la fine di Ofelia o lo straordinario modo in cui è messa in scena la stessa - in un mare magnum di spunti non ben sviluppati alternati a veri e propri buchi drammaturgici. Inoltre, se Giulia Fiume, Federico Le Pera e Gaia Benassi sono ottimi nel dare carne, ossa e calore ai personaggi della tragedia shakespeariana lo stesso non può certo dirsi di Giuliano Peparini, che nel confronto paga lo scotto di essere un ballerino, coreografo e regista non certo un attore. Giacomo Sette, autore del testo, è comunque ancora giovanissimo: questa esperienza potrà essere per lui una occasione importante per imparare a calibrare l'indubbio talento. Un augurio simile va fatto al giovane regista, Gianluca Merolli, con la speranza che capisca quando è il caso rimandare a un progetto prossimo tante suggestive soluzioni sceniche, specie se in quello corrente ne adotta già in sovrappiù: lo spettacolo poteva intitolarsi Opheless e il risultato sarebbe stato più convincente.
Cristian Pandolfino
2 marzo 2017