Recensione dello spettacolo Per chi suona la campana…storia di un morto di fama, in scena al teatro San Luca di Roma dal 3 al 5 marzo e dal 10 al 12 marzo 2017
La vita è social ed ormai ce ne stiamo facendo una ragione o, quanto meno, lo abbiamo accettato e, a furia di tweet e ritweet, ce lo siamo anche fatto piacere. E se lo fosse anche la morte?
Il social è vita! Ecco, forse così si riassume al meglio il paradigma precedente: così presi a interagire attraverso display di ogni forma, misura e dimensione abbiamo ormai relegato e consegnato, con serena presa d’atto, la fotografia della nostra vita ad un semplice e momentaneo screenshot da “sharare”.
E se ad essere social fosse anche la morte? Forse deve essere stata questa la domanda che si è posto anche Francesco Gentile mentre prima di buttare giù sul foglio il suo lavoro Per chi suona la campana… storia di un morto di fama, andato in scena dal 24 febbraio e ancora sul palcoscenico del Teatro San Luca dal 3 al 5 marzo e dal 10 al 12 dello stesso mese. La risposta? Tutta concentrata in universo-mondo scenico che ha preso vita, materializzandosi sul palco, nelle vesti di un micro-cosmo contemporaneo, una società attuale che, mixata in un calderone ribollente nel quale grottesco e morale hanno cercato di fondersi insieme dando vita ad un interessante esperimento.
La sfida è ardua e gli esempi da cui attingere a piene mani sono numerosi, anche perché la trama, il soggetto e i personaggi si prestano facilmente a parallelismi continui con la commedia dell’arte, con le trovate cabarettistiche ma anche con una sorta di scrittura morale che cerca, nel suo piccolo, di far luce su riflessioni più profonde, delle volte, dei concetti stessi.
La trama è originale, l’idea c’è e il materiale umano a disposizione è cospicuo – 20 i personaggi messi in scena dalla Compagnia del Teatro Stabile di Helsingor – e soprattutto il compito di guidarli tutti è nelle mani di un Francesco Gentile (Simone nell’opera) bravo a dettare i tempi e a cercare di oscillare tra momenti ironici e momenti amari che spesso vanno a sovrapporsi, perché d’altronde la vita, soprattutto questa vita è esattamente così: amaramente cinica e velatamente ironica.
Simone, dunque: disoccupato incallito che poco si impegna per cercare un nuovo lavoro dopo che la sua fabbrica ha trasferito in Polonia tutta la produzione e che vive alle spalle di una moglie, malgrado tutto comunque a lui affezionata, più che innamorata, e della madre di lei (Barbara Gentile), pronta a sminuirlo e a sminuire la sua precaria condizione. L’arrangiarsi è arte e Simone la mette in pratica con piacere tanto da ritrovarsi a svolgere lavori biechi e loschi per il boss del quartiere di un non meglio identificato non-luogo che potremmo chiamare…la società. Stressato da scagnozzi e da compiti ingrati, svilito da un mondo che va troppo più veloce di lui, Simone, per attirare l’attenzione della società, ammicca al suicidio, allude alla sua ultima ora come soluzione finale. A trovare anche nella morte altrui un’occasione, ci pensa allora il vicino di casa (Claudio Mancini) di Simone, fervente quanto patetico nostalgico comunista che tra motti attempati e ideologia prostrata al fine ultimo dell’utile ad ogni mezzo, vede nell’intento di Simone la svolta per far confluire nelle casse del derelitto partito i fondi necessari a sopravvivere: lucrare sulla morte del protagonista facendo diventare il suicidio un vero e proprio fenomeno social con tanto di sponsorizzazioni, communication-web&social-addicted guru mediatico (Valerio Desirò dal Karma più che occidentalis) e visualizzazioni come se piovessero. A raccogliere l’iniziativa, un gruppo disparato di avventori pronti a sponsorizzare la fine ultima di Simone senza stare troppo a sottilizzare sulla morale comune o sul buon senso che sembra, ma non del tutto, riacquisire un senso e una morale solo verso il finale a sorpresa.
Intrigante lo spunto, ironico l’intento e sfizioso oltre che arguto il funeral party organizzato in onore della morte di Simone con guess star…proprio il redivivo Simone. Felice l’intuizione di dare al pubblico, comunque, una vittima, un capro espiatorio e un martire che, convinto e spinto a farsi strumento della comune social mission imperante – la visibilità – sale sulle scale che portano alla croce, pronto ad ergersi sul patibolo della vana gloria effimera, magari lunga 140 caratteri. Ma la vittima è un Cristo comunque troppo umano per una società sì spietata quanto cieca…ma di certo mai muta, per portare a termine un compito tanto cinico quanto inutile.
Un esperimento teatrale, quello della compagnia, che funziona…con qualche appunto.
Bravi a saper interpretare il loro ruolo all’interno della caotica società sulla scena inventata (azzeccato il vario utilizzo di dialetti differenti per sottolineare una sorta di realtà new-babilonica), un po’ troppo repentini, in alcune fasi, nel cambiar sostanzialmente il loro iniziale compito: certo, il percorso morale delle due coppie di personaggi principali - Simone e la moglie (Antonella Dicorato), il vicino e la sua nuova fiamma (Isabella Marcucci) - prevede una rapida ascesa verso il pathos cruciale, rappresentato dal pre-funeral social party e una ancor più rapida ridiscesa verso gli inferi di una realtà tangibile, cruda che, al di fuori dei nuovi mass media e dei trand cool che fanno tendenza è spietata e vera tanto da far male, ma taluni cambi di ruolo e o di carattere avvengono talvolta di getto, senza dar allo spettatore il tempo di assimilare del tutto le caratteristiche e gli aspetti principali di queste “maschere”: una sorta di salto a piè pari che elude il necessario momento di “svolta” tangibile. Succede così che il personaggio del vicino di casa, insomma, dapprima votato del tutto alla causa del partito, nel rapido battito di ciglia si metamorfizzi in un freddo calcolatore capitalista, pronto a svendere anche l’anima (altrui) pur di far sopravvivere l’ideale. O che la sua compagna, presentata come una moderna “Colombina” vezzosa e gelosa, possessiva e sospettosa, quasi da sembrar priva di profondità umana, assurga d’improvviso a figura morale regina della storia.
Ciò che funziona è sicuramente la trama, oltre all’interpretazione magistrale di Gentile e della Dicorato, bravi a rimpallarsi le battute in un camuflage di dialettica parteno-barese che accompagna e spinge il pubblico alla risata. Geniali le trovate all’interno della storia oltre che divertenti alcuni spunti che fanno sorridere più che portare ad una riflessione, forse troppo spesso forzatamente cercata. L’atmosfera che dal comico si allunga nel tragico è resa leggera e piacevole dalle musiche originali scritte ed eseguite da Lorenzo e Valerio Desirò ai quali va il plauso di aver saputo trovare la chiave giusta per accompagnare e cadenzare il ritmo delle scene.
In conclusione, lo spettacolo è un “buona la prima” da asciugare e rivedere, in modo da rendere scorrevole il tutto e da offrire ad un concetto di base, evidente e ben strutturato, la risposta concreta e univoca agli eventuali “perché” che il testo stesso solleva.
Federico Cirillo
2 marzo 2017