Recensione dello spettacolo Manon Lescaut in scena al Teatro Goldoni di Livorno il 10 e 12 febbraio 2017
Venerdì 10 marzo è andata in scena al Teatro Goldoni di Livorno una delle opere meno conosciute al grande pubblico di Giacomo Puccini: Manon Lescaut, rappresentazione che mancava sul palcoscenico livornese da dieci anni. Sul podio il maestro Alberto Veronesi, affermato direttore d’orchestra a livello internazionale e attuale presidente del Festival Puccini di Torre del Lago, che ha diretto l’Orchestra della Toscana che si è dimostrata, come fatto notare da alcuni spettatori, forse non sempre all’altezza delle grandi capacità del Maestro.
La regia è stata curata da un giovane regista, Lev Pugliese, che in precedenza, ha quasi sempre messo in scena opere di impianto classico sia dal punto di vista scenografico che del costume. A dare vita ai personaggi di questa storia d’amore, un cast di grande interesse: Rachele Stanisci (Manon), Riccardo Tamura (Renato Des Gireux), Sergio Bologna (Lescaut), Carmine Monaco d’Ambrosia (Geronte), Giuseppe Raimondo (Edmondo), Alessandro Ceccarini (L’oste / un comandate di Marina), Didier Pieri (Il Maestro di ballo / un lampionaio), Lorenza Zaccaria (Un musico), Alessandro Martinello (Un sergente degli arcieri), Fabio Vannozzi (Un parrucchiere). Da un punto di vista coreografico, sia i cantanti che il numeroso coro, sono risultati abbastanza statici, mentre generalmente il melodramma richiederebbe maggior movimento.
Per quanto riguarda i costumi, curati dallo stesso regista e realizzati da Carolina Micieli nella sartoria del teatro, sono di stampo troppo contemporaneo, risultando inadeguati, se si pensa che l’azione è ambientata nella seconda metà del 1700. L’unico di stampo più tradizionale è quello indossato da Manon nel secondo atto.
La scenografia è stata estremamente minimalista, porto due scene come esempio: la camera da letto di Manon, composta da quattro sedie che delimitano lo spazio e più al centro delle sedute rivestite da drappi, su cui poggiano coppe piene di frutta e cuscini, e la scena del porto di Le Havre, in cui è presente solamente una pedana inclinata posta sul fondo a sinistra del palcoscenico. Non sarebbe costato molto aggiungere qualche elemento scenico in più, non perché non sia giusto rinnovare il teatro usando scene meno “barocche” del passato, ma perché deve esserci comunque concordanza tra testo e “cornice”, per cui quando Manon afferma: «Tutti questi splendori!...Tutti questi tesori!», qualche splendore in più avrebbe dovuto esserci.
Molto interessante l’uso che è stato fatto sia delle luci di scena che delle videoproiezioni. Le prime hanno contribuito soprattutto nell’ultimo atto, che si svolge in una landa desolata, colorando con le giuste sfumature le assi del palcoscenico e rendendo benissimo l’idea del deserto. Le videoproiezioni invece hanno sottolineato con evidente chiarezza, le passioni e i sentimenti della protagonista.
C’è da chiedersi il perché il regista, che come già detto ha diretto quasi tutte le opere con un impianto abbastanza classico, si sia “leggermente impoverito” mettendo in scena questa versione della Manon Lescaut.
Gabriele Isetto
12 marzo 2017