Recensione dello spettacolo La Classe, in scena al Teatro Marconi, dal 18 Marzo al 9 Aprile 2017
La Classe, scritto da Vincenzo Manna e diretto da Giuseppe Marini, è un bellissimo e intenso spettacolo di teatro civile e impegnato che rappresenta il risultato di un progetto nato dalla sinergia di soggetti operanti nei settori della ricerca (Tecné), della formazione (Phidia), della psichiatria sociale (SIRP) e della produzione di spettacoli dal vivo (Società per Attori).
Nasce, infatti, da un progetto che ha preso l’avvio da una ricerca condotta da Tecné, basata su circa 2.000 interviste a giovani tra i 16 e i 19 anni, sulla loro relazione con gli altri, intesi come diversi, altro da sé, e sul loro rapporto con il tempo, inteso come capacità di legare il presente con un passato anche remoto e con un futuro non prossimo.
Gli argomenti trattati nel corso delle interviste hanno rappresentato un importante contributo alla drammaturgia del testo di Vincenzo Manna.
La storia si svolge ai nostri giorni in una cittadina europea in grave crisi economica e in cui criminalità e conflitti sociali sono all’ordine del giorno in un clima di progressivo decadimento sociale, morale e culturale.
A rendere il clima ancora più drammaticamente esacerbato è la presenza, appena fuori della città, del cosiddetto Zoo, uno dei campi profughi più vasti del continente, la cui presenza provoca ulteriori conflitti all’interno e all’esterno del nucleo cittadino.
A dividere quelli che sono i resti di una società civile in disfacimento dallo Zoo è un muro, eretto col preciso scopo di rifiutare l’integrazione e di non vedere cosa accade dall’altra parte.
Vicino al muro dello Zoo, in uno dei quartieri più popolari della periferia cittadina, c’è una scuola superiore che, attraverso i propri corsi professionali, dovrebbe avviare i giovani al lavoro. In quella scuola c’è una classe composta da sei giovani difficili, sospesi per motivi disciplinari e che devono recuperare crediti frequentando un corso istruito apposta per loro. A tenere questo corso sarà Albert (Andrea Paolotti), straniero di terza generazione di 35 anni, laureato in Storia e assunto come Professore Potenziato. Da subito il Preside (Tito Vittori) dell’Istituto Comprenisivo metterà in chiaro con Albert che il corso non ha nessuna rilevanza didattica, ma serve solo a far recuperare crediti agli studenti che, nell’interesse della scuola, devono adempiere all’obbligo scolastico e diplomarsi il prima possibile.
I sei giovani sono ragazzi problematici, arrabbiati, che covano dentro un rancore e una diffidenza estremi che li portano a scontrarsi l’uno con l’altro e col mondo esterno.
Tuttavia Albert riuscirà a vedere nella loro rabbia una possibilità di espressione. Dopo i primi inevitabili e violenti contrasti, Albert riuscirà ad attirare la loro attenzione e a conquistarne la fiducia attraverso la presentazione di un bando europeo per le scuole superiori che ha per tema “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”.
I ragazzi, turbati dalla ferocia e disumanità di quelle testimonianze, si impegneranno a ricostruire una storia e degli eventi che non potranno lasciarli indifferenti. Allo stesso tempo, però, la cittadina verrà scossa da atti di violenza e disordine sociale, causati dalla presenza dello Zoo. Le reazioni dei ragazzi saranno diverse e, a volte, drammaticamente imprevedibili e porteranno a conseguenze inaspettate.
Sul palco, grazie alle scene di Alessandro Chiti, viene ricreata un’aula di scuola interamente arredata con banchi, sedie, cattedra, lavagna, appendiabiti e un televisore, ma completamente deteriorata e trascurata, con il pavimento riempito da cartacce lasciate lì a macerare nel tempo che trascorre, per i ragazzi, stanco e piatto.
Scuola, strutture, studenti e corpo docente sono specchio della crisi economica e sociale della cittadina.
I ragazzi sono mondi isolati e solitari, pianeti facenti parte della stessa galassia, ma che ruotano su se stessi senza avere forza attrattiva sugli altri. Ragazzi arrabbiati e delusi che vorrebbero solo una possibilità, ma che non sanno chiederla né coglierla, congelati ormai una immobilità che è diventata routine.
Sei giovani diversi per provenienza e temperamento: Maisa (Cecila D’Amico) è una ragazza musulmana timida e spaventata che ha paura di tutto e tutti; Vasile (Edoardo Frullini) è uno zingaro che col suo atteggiamento è causa dei suoi stessi mali; Talib (Haroun Fall) è un ragazzo di colore che sta con tutti, ma in fondo non ha nessuno; Nicolas (Carmine Fabbricatore) è quello più arrabbiato di tutti, prepotente e violento; Arianna (Valentina Carli) è una ragazza che guarda sempre ciò che non va e non riesce a reagire alla vita; Petra (Giulia Paoletti) è una ragazza ebrea sensibile ed educata, che ride sempre, ma in realtà si sente fuori posto in quel contesto.
Gli elementi di questo microcosmo, vari per etnia, religione e colore oltre che per il carattere, si troveranno concentrati in una ricerca storica che ha per oggetto altri individui come loro, come loro diversi, come loro distanti eppure così vicini.
Allo stesso tempo vivranno tutte le sollecitazioni forti, complesse e drammatiche che arrivano dalla vicinanza dello Zoo, in cui i rifugiati non sono altro che altri uomini, di altre etnie, che, come loro, chiedono un’opportunità.
La storia si svolge sull’intreccio di questi tre importanti livelli che vengono portati avanti con grande potenza narrativa e vivezza espressiva, anche in un linguaggio forte che qui è perfettamente funzionale: parole forti usate, ma mai abusate.
Da una parte c’è la cosiddetta società civile, in profonda crisi, in cui esseri umani diversi devono fare i conti con i propri enormi problemi sociali, politici ed economici; dall’altra c’è lo Zoo, un’ulteriore realtà isolata dalla città da un muro, in cui sono costretti i rifugiati, altri stranieri.
Tra le due realtà, c’è il progetto di studio che i ragazzi compiono su un terzo mondo che non è solo ideale, ma che li metterà di fronte a se stessi, al loro modo di vedere il mondo e, soprattutto, al loro modo di volere il mondo.
La Classe è una storia di solitudini, di diritti negati, di convivenze pensate impossibili, che si stacca dalla teoria del progetto di studio, che supera il muro che divide noi e loro e che arriva dritta fino a noi senza filtri, con una potenza drammaturgia ed espressiva fortissima e coinvolgente.
In questa storia, non c’è solo la rivolta, la ribellione, la contestazione, ma c’è la presa di coscienza, il desiderio di conoscere la storia degli altri, c’è un percorso di auto conoscenza e auto determinazione nella progettualità, alla ricerca di un qualcosa in cui mettere se stessi per darsi una possibilità.
E’ un'analisi lucida, accurata della nostra realtà, crudele perché la realtà lo è molto spesso.
Al centro di tutto l’impianto drammaturgico è la scelta: “tutto quello che siete adesso lo sarete per tutta la vita”, dice ad un certo punto il professor Albert. Si deve scegliere chi si vuole essere e darsi da fare per arrivare il più vicino possibile all’idea che vorremmo di noi.
Alla fine gli uomini rappresentati in questa storia sono solo esseri umani che vogliono riappropriarsi della propria dignità e vogliono avere ancora una possibilità. Uccelli a cui sono state tarpate le ali.
Il testo di Vincenzo Manna è potente, richiama immagini e scatena emozioni e reazioni.
La regia di Giuseppe Marini va di pari passo col testo ed è lucida, tagliente, lasciando fuori fronzoli o effetti per dare spazio, voce e luce solo alle storie e all’interpretazione di un cast strepitoso.
Un cast fortissimo composto in prevalenza da giovani che sanno muoversi su quel palco con ferocia e aggressività, ma anche con intensità ed espressività comunicando ognuno il mondo interiore del proprio personaggio. Ognuno di loro ha spazio per muoversi nel proprio personaggio colorandolo in ogni forte accento e ad ognuno è affidato un monologo in cui la tensione esplode e la vis interpretativa può raggiungere l’apice.
Cecilia D’Amico, Carmine Fabbricatore, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Giulia Paoletti, Haroun Fall sono eccezionali e colpiscono a viso aperto lo spettatore.
Andrea Paolotti, grandissimo interprete, riesce a far arrivare tutte le emozioni del proprio personaggio: rabbia, frustrazione, impegno e desiderio di dare una possibilità a quei ragazzi. Il suo non è un personaggio staccato, al di sopra del gruppo, ma è parte di questo gruppo e questo si avverte sia nella storia che nell’approccio alla recitazione. Paolotti interagisce in maniera eccellente con questi giovani attori gestendo con capacità lo spazio scenico e regalando momenti di grandissima intensità. Ho concentrato più volte il mio sguardo nei suoi occhi e ho visto e vissuto l’anima del suo personaggio.
Tito Vittori, nelle vesti del Preside, è abile nel disegnare un personaggio cinico e disinteressato al bene comune, una sorta di politico corrotto di una piccola comunità.
Da segnalare, poi, la partecipazione della straordinaria Ludovica Modungo nei panni della Rifugiata e protagonista di un intenso e difficile monologo che è una cruda testimonianza di un’esistenza annientata dall’orrore che solo l’uomo può generare.
Flaminio Boni
20 marzo 2017
informazioni
Società per Attori
presenta
La Classe
di Vincenzo Manna
regia Giuseppe Marini
con Andrea Paolotti, Cecilia D’Amico, Tito Vittori, Carmine Fabbricatore, Edorardo Frullini, Valentina Carli, Giulia Paoletti, Haroun Fall
e con la partecipazione straordinaria di Ludovica Modugno