Recensione dello spettacolo M² della compagnia Dynamis, andato in scena al Teatro Vascello 18 e 19 marzo 2017
“Lo Stato totalitario fa di tutto per controllare i pensieri e le emozioni dei propri sudditi in modo persino più completo di come ne controlla le azioni”. Non poteva che esser partorito da George Orwell, precursore della verità, tale pensiero critico. Una verità, la sua, che si riscontra nella performance firmata dai Dynamis e andata in scena al Teatro Vascello, all’interno della quale sono stati coinvolti sette volontari del pubblico.
Una performance partecipativa che si interroga e trasporta in maniera ludica un concetto oramai risaputo e chiaro, ma che è sempre bene ricordare e soprattutto indagare. Siamo tutti veicolati e controllati nella nostra libertà, quanto in realtà siamo liberi, quanto il nostro spazio è nostro, quanto siamo disposti a condividerlo? Di queste domande secolari cambia il saperle riproporle. Il portare sulla scena in maniera efficace e originale un messaggio già diffuso fa la differenza. I Dynamis riescono nella prova, intrecciando il loro personalissimo modo di far teatro col risveglio di una certa consapevolezza. Sul palco dinamicità, un pc, un uomo nella veste di rigido tutor, sette partecipanti, una voce metallica e un nastro isolante verde acido che verrà utilizzato per tracciare una misura stabilita e precisa.
Lo studio, infatti, è una ricerca “su l’uso dell’unità di misura metro quadro. Qual’ è il confine che intercorre tra umano e disumano nelle declinazioni della nostra quotidianità?” Durante l’esperimento, ai sette partecipanti viene chiesto di adattarsi all’interno dello spazio circoscritto, di fare una serie di azioni e movimenti, sedersi a terra, improvvisare un valzer, fare una piramide umana. Il tutto si svolge nell’ilare coinvolgimento dell’informalità e assume contorni comici nel vedere le cavie assecondare le disposizioni della voce metallica, spronate da un tutor che va man mano svelando una natura autoritaria. Il senso viene presto svelato, “ve l’avevamo detto ci sono delle regole”. Intrappolati nel metroquadro e nel gioco i concorrenti si ritrovano pedine di un sistema, rappresentato da una voce che osserva i loro movimenti (grande fratello invisibile?) e dal suo braccio/forza dell’ordine, quel tutor che stimolava con la maniacalità di un personal trainer di una palestra che si rivela struttura di repressione e violenza. Un manganello giocattolo, che viene usato con immedesimata cattiveria, costringe un confinamento che non può non far riflettere. Incita al ballo, e poi all’immobilità.
Balliamo se loro vogliono che balliamo, subiamo percosse se il nostro divertimento non è contemplato nei loro piani. Uno spazio non democratico, dove ciò che appare come divertimento è in realtà il divertimento indotto dalla macchina tutta lustrini che ci abbaglia. Contentini e parvenza di leggerezza in un mondo che massacra. Con una serie di dati la voce ci proietta nell’immaginario concreto e reale dello spazio, soffocante, ristretto. Non ci rilascia la sensazione della bellezza che può scaturire dal contatto e la vista di molti durante una partecipata situazione di piazza, la potenza della folla, il corteo, la manifestazione, il senso dell’aggregazione, piuttosto avvertiamo l’obbligo di compressione, quella dei grandi numeri durante gli eventi claustrofobici, la calca e la chiusura nei mezzi di trasporto che ci portano al nostro lavoro, probabilmente malpagato e necessario per sopravvivere, e più crudelmente l’affollamento che invade barconi in mare. Anche lì sopravvivenza, anche lì morte.
Il progetto, infatti, parte proprio da una riflessione sui casi di naufragio nel Mediterraneo e le violenze anche di spazio vivibile a bordo, una ricerca costruita attorno ad una proporzione tra superficie e persone coinvolte e poi sviluppata in performance nell’ambito di un laboratorio teatrale per rifugiati politici svolto a Roma nel 2015. Efficace, concreto, concentrato nel giusto tempo, interattivo e profondo, lo spettacolo fa sorridere e ridere per tutta quell’umanità manifesta nelle prove a cui sono sottoposti i partecipanti, lasciandoci poi con una più radicata memoria. Internamente la realtà delle cose si manifesta. Ricordiamoci, pare dire tutta la cura del dettaglio dei Dynamis, che su questa terra di cui abitiamo lo spazio ognuno di noi è un richiedente asilo, un rifugiato o uno sfollato.
Erika Cofone
22 marzo 2017