Recensione dello spettacolo MA in scena al Teatro India dal 21 al 26 marzo 2017
Ossessione, tenerezza, morbosità, proiezione. Quante cose è stata per Pier Paolo Pasolini sua madre: quella Susanna Colussi di cui così poco si parla davvero, persa com’è nelle trasfigurazioni che ne ha fatto il figlio a cui seguiranno rielaborazioni a lui postume. Stavolta tocca ad Antonio Latella, che con MA decide di indagare quegli “Sguardi e sorrisi spezzati delle madri scelte come icone assolute di un’Italia che sa che tutto sarà irrecuperabile. Quegli sguardi potenti e violentati da un dolore ancestrale”. E riferendosi a Pasolini, sottolinea come “Tutta la sua letteratura e il suo teatro sono pervasi dalla presenza di quella madre che lo ha accompagnato nella fuga dalla banalità coatta del vivere quotidiano”. Da qui l’idea di mettere in scena un testo di Linda Dalisi che parte da quella prima parola che ogni bambino è spinto a pronunciare: il tanto agognato “mamma” che l’autrice gioca a distorcere, come sillaba ripetuta di quel “ma” che è particella disgiuntiva.
Il peso di tutta questa visione mammiarchica è sulle spalle di una sola attrice: l’eccellente Candida Nieri che, inchiodata sul palco da immense e pesantissime scarpe nere, affronta tutte le diverse sfumature del lutto di uno Stabat Mater fisicamente lancinante. È lei, infatti, quella chiamata a riassumere con il proprio corpo e la propria voce tutta l’ambiguità del rapporto privato - di Pier Paolo - e pubblico - di Pasolini - con la madre. Lo fa partendo da un balbettio primordiale che lacrima dagli occhi e dal naso, per poi dar fiato a quelli che avrebbero potuto essere gli ultimi pensieri di un figlio massacrato all’Idroscalo di Ostia una notte d’inverno, che verrà mescolato alle riflessioni di una donna a cui è stato strappato ciò che aveva di più caro.
A questa miscela straziante vanno ad aggiungersi le parole di quelle mamme che il regista aveva creato sul grande schermo: dalla Madonna del Vangelo Secondo Matteo - che proprio Susanna Colussi è stata chiamata a interpretare - all’implacabile Medea - i cui tratti ieratici sono quelli di Maria Callas - fino a quella Mamma Roma - un’indimenticabile Anna Magnani - che fa di tutto per concedere all’amatissimo Ettore una vita migliore della propria, inutilmente. Le madri di Pasolini escono dalla pellicola e avvolgono il teatro, mentre l’attrice tenta di afferrarle tutte per riunirle a quell’unica mamma desolata cui non resta che dichiararsi anch’essa figlia di chi l’ha creata con la sua opera.
Un tale padre/figlio non si può che omaggiare con i fiori della sua opera: ed ecco l’impressionante elenco degli oltraggi subiti da quasi tutti i titoli dell’intellettuale, il momento più riuscito di uno spettacolo il cui testo non è sempre a fuoco nel tentativo di tenere in equilibrio la vicenda dell’uomo e la visione dell’artista. Una vera e propria persecuzione giudiziaria fatta di denunce per oscenità, corruzione, offesa al comune senso del pudore, vilipendio alla religione che la madre sparge in onore del figlio, seminandosi di un atroce dubbio: avrebbe, forse, dovuto non insegnarli a parlare, a esprimersi, a creare.
E, in effetti, se fosse stato educato, accudito e supportato diversamente forse Pier Paolo sarebbe ancora vivo. Di certo, però, non ci sarebbe stato Pasolini.
Cristian Pandolfino
22 marzo 2017