Recensione di ‘Der Fliegende Holländer’ al Teatro ‘Giuseppe Verdi’ di Trieste
Approda di nuovo, dopo diciotto anni, ‘Il Vascello Fantasma’ al teatro Verdi.
Edizione dal cast importante, con la regia di Henning Brockhaus e la direzione di Enrico Calesso.
Gli esiti sono stati unanimemente positivi per gli aspetti musicali, un po’ più eterogenei per gli aspetti visivi.
Un gruppo di spettatori non ha apprezzato ed ha dissentito con qualche buh alla prima, che però erano del tutto assenti alle due repliche successive, cui abbiamo assistito.
Il Regista tedesco è sicuramente un Maestro del palcoscenico e quando si va a vedere uno spettacolo con la sua firma non ci si può aspettare una lettura scontata o tradizionalmente accattivante.
Brockhaus scava, indaga, rilegge, sublima.
Ovviamente questo può piacere o meno. Per fortuna, però, le sue interazioni con la partitura sono visive ma non inficiano l’esecuzione. Questo per dire che a differenza di altri che mettono in difficoltà i cantanti, introducono pause incomprensibili, rumori non previsti ed effetti fuorvianti, con lui, nella peggiore delle ipotesi basta chiudere gli occhi e godersi l’esecuzione.
Personalmente crediamo che, comunque la si pensi, valga sempre la pena di assistere ad un suo spettacolo. Può non piacere, certo, ma non è mai tempo perso, perché il turbine delle suggestioni è tanto, l’abbraccio narrativo potente, le riflessioni spesso graffiano le strato delle consuetudini.
In questo caso al centro del lavoro non c’era l’Olandese, ma Senta.
La Donna, data per scontata, offesa nella sua individualità, alla quale non si chiede un’opinione, per la quale non vale l’opzione della scelta.
Interessantissima visione, che trova la più profonda delle ragioni nella descrizione degli uomini fatta da Wagner: un padre che vuole ‘piazzare’ economicamente la figlia; Erik che gioca la carta dei rimorsi, che da’ per scontata Senta di cui pensa di essere il padrone; l‘Olandese che alla fine cerca una donna che lo ami non perché ricambia i sentimenti, ma in nome del desiderio di poter porre fine alla presenza terrena. Storie di egoismi e di miserie, di un machismo arrogante ed insensibile. Senta, invece, è coerente, fedele, determinata.
E’ il prototipo di quella Donna che di li a poco avrebbe retto le sorti della società, con i mariti a combattere sui fronti disseminati in giro per l’Europa, oppure a crescere da sola i figli mentre il consorte lavorava lontano. Ma anche capace di prendersi la vita in mano, consapevole del diritto di difendere il suo diritto di individuo, di donna pensante.
Ma è anche il prototipo, ancor più drammatico di quelle donne ferite, umiliate, non credute, violentate prima nell’animo che nel corpo.
Diviene metafora dei buoni, offesi ed ostacolati da una società che ha paura del loro rigore morale.
Non a caso Senta, all’inizio dell’opera, appare insanguinata.
Non hanno pugnalato il suo corpo ma il suo animo e neanche si accorgono di quanto l’hanno costretta a soffrire.
Qualcuno dirà che è una costruzione intellettuale troppo raffinata , ma non dimentichiamoci che Wagner era artista a tutto tondo, che aveva scritto anche il libretto, nel quale ci sono frasi di potente poesia e dirompente coraggio, che lavorava di metafore e citazioni letterarie.
Oltretutto la lunga tradizione di Bayreuth, il teatro voluto proprio dal compositore tedesco e gestito dai suoi eredi, apre da sempre a letture contemporanee, coraggiose, non scontate, dei titoli wagneriani.
Ancora una volta uno spettacolo che, comunque la si pensi, merita grande rispetto.
Da parte nostra, abbiamo nutrito grandi dubbi sulle scenografie, firmate dal regista e da Giancarlo Colis, non tanto nell’aspetto ideativo quanto in quello realizzativo.
Forse le sagome delle navi volevano essere così palesemente non tridimensionali, quasi citazioni letteraria, ma certo l’impatto non è suggestivo .
Efficace simbolicamente l’arrivo del Vascello, ricco di riferimenti psicanalitici; funzionali, ma nulla di più, gli interni, che consento di mettere in risalto gli efficaci contributi video di Luca Scarzella.
A nostro parere anche i costumi di Colis presentavano delle criticità. Molto suggestivi ed eleganti nei figurini pubblicati sul libretto di sala, ma meno riusciti nella realtà, nella quale quello che pare magnifico per una silfide può diventare grottesco per una fanciulla bella ma dalle forme opulente.
Anche perché, per esempio, se alla fine si vuole far diventare Senta un fantasma ponendole addosso un velo, è necessario, secondo noi, che la si copra tutta , pena un effetto incomprensibile ed un po’ risibile, che certamente l’abilità di Colis non merita.
Determinante il contributo allo spettacolo dato da Valentina Escobar, che però ha potuto godere di un organico realmente ridotto: quattro danzatrici ed un gruppo di mimi. Troppo poco per una presenza in scena quasi costante e soprattutto un gruppo molto condizionante nelle scelte coreografiche. Da affidabile professionista è riuscita a costruire una narrazione parallela importante, puntando sostanzialmente soprattutto su movimenti scenici, coi i quali dava forma ai sogni dei vari personaggi: l’idea della donna innamorata dell’Olandese; le donne lasciate a casa dai marinai; gli sposi lontani; l’amore di Senta; le aspettative di Erik.
Ci sono dei momenti di ripetitività, ma anche questo potrebbe essere suggestiva scelta intellettuale: i sogni che si ripetono, ricorrenti ed inclementi, che quasi sfiorano l’incubo nel loro non concretizzarsi e nella loro ossessività.
Straordinario l’effetto di vedere il palcoscenico che si svuota, nel dialogo fra Senta ed Erik, quando l’uomo rinfaccia alla donna i suoi ‘doveri’, l’obbligo di soddisfare le aspettative di lui.
Dove non c’è amore, non c’è neanche spazio per i sogni.
Altri passaggi ci sembrano sfuggiti, come la componente sensuale nei sogni dei marinai e non solo, ma difficile dire se è scelta autentica o difficoltà tecnica legata all’organico.
Innegabile che per cogliere appieno il lavoro registico abbiamo dovuto rivedere lo spettacolo e ‘digerirlo’. Questo fa auspicare una prossima ripresa con alcuni aggiustamenti, perché questa interpretazione così potente riesca ad assumere la più giusta dimensione e metta in luce tutte le sue potenzialità, diverse delle quali ancora solo abbozzate.
Viene anche da dire che il teatro dovrebbe domandarsi se non potrebbe essere una idea, come fanno in altra realtà, per esempio a Treviso, offrire una presentazione prima di ogni replica, magari con relatori differenti, per offrire delle chiavi di lettura che aprano a più interpretazioni, almeno per alcuni dei titoli.
Oppure se per lo spettacolo non sarebbe stato utile, perfino salvifico, proiettare qualche frase in apertura. Tanto per permettere a tutti, da subito, di cogliere il bandolo per la giusta visione.
Per quel che riguarda le voci, diciamo subito che entrambe le compagnie sono di grande qualità.
Presente in entrambe Andrea Schifaudo. Il tenore, in continua crescita vocale, affronta in modo efficace la non semplice parte del timoniere di Daland.
Il colore piacevolmente luminoso, gli acuti sicuri, un centro solido, sono le caratteristiche del suo personaggio, che viene interpretato scenicamente con credibilità e misura.
Sanja Anastasia riesce a costruire una interessante Mary, che diviene figura importante nella narrazione. Il lavoro che il mezzosprano realizza scenicamente è molto interessante: si trasforma, da avvenente signora quale è nella vita normale in una arcigna donna di mezza età, severa, calcolatrice, brusca nei modi e rigida nella postura, senza sentimenti, vocalmente capace di note basse di grande fascino e di una suggestiva gamma di colori .
Nella parte di Daland si alterano un veterano come Albert Dohmen e la voce emergente di Abramo Rosalen.
Dohmen è stato l’Olandese a Trieste già due volte. La prima un quarto di secolo fa. Nonostante il tempo e le parti onerose, la voce è solida, i fiati lunghissimi, gli acuti potenti, ma soprattutto incantano i colori , il modo di porgere le frasi musicali, la misura e l’intelligenza con cui interpreta il ruolo del padre di Senta. Un grande ritorno per il quale va reso merito al teatro giuliano.
Rosalen al momento sta muovendo i primi passi, ci pare, nel repertorio wagneriano , ma assolve la parte con competenza, ha dalla sua una voce di notevole bellezza ed una tecnica sicura, che gli consentono di superare agevolmente le difficoltà della parte. Scenicamente appariva più un elegante signore di campagna piuttosto che il comandante di un gruppo di marinai stanche ed un po’ euforici, ma questo fa parte, forse, delle scelte interpretative personali.
Senta aveva le forme di Elena Batoukova- Kerl e di Claire De Monteil, entrambe visivamente penalizzate, secondo noi, dai costumi, che le rendevano loro più voluminose e la recitazione meno credibile.
Fatta questa osservazione prettamente patica ed alla fine di poca rilevanza, siamo davanti, pur nelle loro diversità, a due interessantissime interpreti.
La De Monteil ha cantato alla Scala nella Medeè di Cherubini lo scorso. Voce interessante, dal colore suggestivo, è capace di acuti squillanti, pagine di potenza, ma anche di momenti di struggente poesia. Molto brava del trovare le sfumature giuste per una Senta caleidoscopica, delicata e decisa, salda e turbata.
Forse dal punto di vista scenico la Batoukova- Kerl, al debutto in Italia, era meno interessante. Ma dalla sua ha uno strumento vocale di grandissima rilevanza.
Acuti potentissimi, che superavano le onde di ogni tempesta, un centro di sontuosa bellezza, il soprano scala il pentagramma con una facilità rara e con fiati infiniti. Qualche suono alle volte appare un po’ aspro, ma la sua voce ha la potenza di un Oceano, gli infiniti colori del mare, la duttilità di un giunco e la forza di una lama d’acciaio. Una interprete importante, che riesce a coprire coro ed orchestra senza apparente difficoltà, ma senza tracotanza od inconsistenti atletisti: ogni suono ha una ragione, un senso e nulla appare eccessivo od ostentato.
Una voce speriamo di poter riascoltare presto per farci nuovamente incantare .
Il ruolo complesso di Erik aveva le ugole di Clay Hilley ed Alexander Schulz .
Heldentenor dalla voce potente e suadente, ricca di sfumature, con acuti potenti, sicuri, pieni, centro solido e passaggi ben risolti, Hilley riesce a tratteggiare una figura interessante, non stereotipata e credibile.
Schulz ha voce meno stentorea ma adatta alla parte e dotata di un colore accattivante, in particolare nella parte alta della partitura. Il suo Erik è più ferito che arrabbiato, ma la lettura proposta è interessante.
Nella parte dell’Olandese , James Rutherford offre una prova molto convincente, in crescita nel corso del lungo atto, con acuti potenti ed un centro decisamente solido. La parte alta del registro ci risulta più coinvolgente rispetto alle note basse, corrette ma senza quelle sfumature da profondità marina , da cielo che preannuncia tempesta, che avrebbero ancor meglio tratteggiato il capitano della nave fantasma.
Sostanzialmente vicino il discorso per Lars Fosser, cantante dalla carriera internazionale abbastanza vasta, ma che a Trieste viveva il suo esordio italiano.
Può contare su una tecnica appropriata, un colore certamente non particolarmente ambrato ed acuti e volumi correttamente gestiti , che lo portano a tratteggiare più un comandante umano che uno spettro spaventoso, ma gli consentono comunque di pastellare un personaggio compiuto.
Il coro, diretto da Paolo Longo, offre una prova decisamente positiva. Potentissima la sezione maschile, rinforzata da un gruppo di artisti provenienti da realtà teatrali tedesche ed abitualmente coinvolti dal Festival di Bayreuth che decisamente si fanno sentire. Raffinata e precisa la prova delle voci femminili, che dominano con bravura le richieste della partitura. Interessantissimo il gioco dei volumi sonori, con il mondo degli uomini più tracotante e quello delle donne equilibrato e sapiente.
Certamente il grande dominatore della serata è stato il direttore Enrico Calesso, che ha saputo guidare l’orchestra del teatro ad una delle sue prove più convincenti.
Quando si affronta questa partitura, ci si confronta fra i due ‘estremi’ delle voci e della tempesta, che è uno dei grandi protagonisti della vicenda.
Il rischio è che per dare spessore sonoro ai flutti si anneghino le prestazioni vocali, oppure che per far sentire i cantanti si trasformi la terribile procella in una timida mareggiata.
Calesso trova il punto d’equilibrio: i cavalloni ci appaiono, inclementi ed impetuosi, ma non perdiamo neanche una delle note che vengono cantate dalle due compagnie.
Quel che si dice uno stato di grazia, sicuramente costruito a colpi di prove, di ascolto degli strumentisti, di servizio alle voci dei cantanti, che vengono valorizzati, sostenuti, messi nella condizione di offrire il massimo , di cogliere lo spunto dell’attimo.
Calesso si libra sulla buca dell’orchestra con un gesto ampio, elegante, personale senza essere egocentrico, preciso, puntuale. Si coglie il piacere di riuscire a plasmare il tessuto sonoro, di far emergere i personaggi dalla bruma, di rapire la platea, che segue ipnotizzata le quasi due ore e mezza, silenziosa e sedotta.
L’atmosfera che si crea è tale che quando l’opera finisce, il silenzio dura ancora qualche secondo, quasi a respirare l’intensità di quel nulla che celebra l’agognata morte per l’Olandese.
Poi irrompe la tempesta. Di applausi ed ovazioni, che raggiunge il culmine proprio all’arrivo del direttore che condivide il trionfo con l’orchestra che così bene ha saputo seguirlo.
Uno spettacolo che vale la pena di essere visto. Verrebbe da dire visto e rivisto, perché ad ogni visione la lettura si fa più interessante e comprensibile.
Un paio di annotazioni che bene illustrano il grande successo della proposta del Verdi.
Il consenso pressoché unanime, ma tutt’altro che scontato, della sala per la scelta operata da Calesso di unire i tre atti in un uno, che è il segnale della magia che il direttore è riuscito ad innescare.
Tanti i ragazzi, evidentemente preparati dagli insegnanti, presenti soprattutto alla replica di sabato, frutto della illuminata politica del teatro che da anni coinvolge alcune realtà scolastiche della regione . Sentirli applaudire con convinto entusiasmo alla fine dello spettacolo è un piacere, ma vederli aspettare, per mezz’ora abbondante, Calesso all’uscita per fare un selfie, chiedere un autografo, ringraziarlo, come fosse una pop star, fa sperare che il mondo prezioso del melodramma abbia un futuro.
Andrà irrorato di passione e qualità. Che scorrono con copiosa abbondanza in questo ‘Vascello’ da non perdere.
Gianluca Macovez
25 marzo 2025
informazioni
Teatro ‘G.Verdi’,Trieste, 22 e 23 marzo 2025
Trieste, Teatro Lirico ‘Giuseppe Verdi’
STAGIONE LIRICA E DI BALLETTO 2024-25
Der Fliegende Holländer
(L’olandese volante)
di Richard Wagner
Maestro Concertatore e Direttore ENRICO CALESSO
Regia HENNING BROCKHAUS
Scene HENNING BROCKHAUS e GIANCARLO COLIS
Costumi GIANCARLO COLIS
Videomaker LUCA SCARZELLA
Coreografie VALENTINA ESCOBAR
Maestro del Coro PAOLO LONGO
NUOVO ALLESTIMENTO DELLA FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE
Personaggi e interpreti
Der Holländer (L'Olandese) JAMES RUTHERFORD 21, 23, 28, 30/III
Der Holländer (L'Olandese) LARS FOSSER 22, 29/III
Erik CLAY HILLEY 21, 23, 28, 30/III
Erik ALEXANDER SCHULZ 22, 29/III
Senta ELENA BATOUKOVA-KERL 21, 23, 28, 30/III
Senta CLAIRE DE MONTEIL 22, 29/III
Daland ALBERT DOHMEN 21, 23, 28, 30/III
Daland ABRAMO ROSALEN 22, 29/III
Der Steuermann Dalands (Il timoniere di Daland) ANDREA SCHIFAUDO
Mary SANJA ANASTASIA
ORCHESTRA, CORO E TECNICI DELLA FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE
In scena dal 21 al 30 marzo 2025 al Teatro ‘Giuseppe Vedi’ di Trieste.