Recensione dello spettacolo L’avaro in scena al Teatro Quirino di Roma dal 17 al 22 dicembre 2024
È sempre un’operazione ardua e onerosa quella di portare sul palco un classico della drammaturgia come L’avaro di Molière, soprattutto se la versione che si intende proporre al pubblico è riveduta e corretta. Molti hanno cercato di svecchiare i grandi classici anche per renderli accessibili alle nuove generazioni, e spesso tali tentativi, seppur condotti con le migliori intenzioni, non sono riusciti a sortire l’effetto né il risultato desiderato, e non hanno nemmeno reso giustizia all’opera originale.
Nel caso de L’avaro diretto da Luigi Saravo, però, l’esperimento è perfettamente riuscito.
Checché ne possano dire i nostalgici della versione tradizionale - i quali potrebbero obiettare che le dinamiche presentate da Molière perdano di credibilità riadattate alla nostra epoca -, questa trasposizione modernizzata arriva in modo diretto ed efficace al pubblico, almeno a chi è ormai stancio di un certo modo di fare teatro.
Complici l’adattamento di Letizia Russo e la regia dal taglio accattivante di Saravo, sul palco del Quirino va in scena una versione fresca, energica, dal ritmo veloce e che tiene desto il pubblico, in barba a tutte quelle eccentricità che oggigiorno apparirebbero macchiettistiche e superate. L’operazione di modernizzazione e svecchiamento, infatti, non ha stravolto l’essenza del testo, che è rimasto lo stesso, ma gli ha infuso nuova linfa.
Oltre ai paradigmi morali e moralistici sul dio denaro viene fuori, infatti, un singolare dualismo tra la visione conservativa di Arpagone, attento a preservare tutte le proprie ricchezze anche al costo di ridursi a bestia umana per rivendicarle, e la visione consumistica degli altri personaggi, volti solo a sperperare il denaro poiché mossi da quella stessa vena che alla fine ci rende tutti ugualmente suoi schiavi. Alla luce di ciò, alla fine è veramente solo Arpagone a uscirne sconfitto?
Definito dal suo abbigliamento di seconda mano, ancora prima che dal carattere e dall’atteggiamento, l’avaro ritratto da Ugo Dighero funziona perfettamente: le sue manie, i timori, i tic, perfino quei suoi tratti più iperbolici, che lo rendono ora comico ora tragico, risultano credibili. Grazie alla prova attoriale del protagonista e del cast tutto, si rimane inevitabilmente avvinti alla vicenda per tutte le due ore e mezza di spettacolo. Oltre a quella del protagonista, particolarmente apprezzata è la doppia interpretazione di Mariangeles Torres nel ruolo di Freccia e di Frosina, due dei personaggi che più danno filo da torcere ad Arpagone; così come ilari e divertenti sono gli equivoci e i battibecchi che si creano con Fabio Barone e Paolo Li Volsi, oltre che i litigi con Stefano Dilauro ed Elisabetta Mazzullo.
I pregi del cast vengono esaltati dal sapiente uso degli altri mezzi teatrali. Le scenografie di Lorenzo Russo Rainaldi si presentano essenziali, pulite e significative e scandiscono lo spazio moderno entro cui si muovono gli attori sulle musiche originali di Paolo Silvestri, che sembrano voler ora celebrare ora denunciare l’attaccamento di Arpagone al denaro. Musiche che funzionano ancora meglio quando sottolineate dalle coreografie di Claudia Monti, come accade durante la performance di chiusura, mentre il dualismo tra consumismo e conservatorismo viene evidenziato dall’uso delle luci calde e fredde disegnate da Aldo Mantovani. È così che la commedia scorre agile e piacevole. Si può forse chiedere di più da un testo del 1668?
Diana Della Mura
20 dicembre 2024