Recensione dello Spettacolo Dioggene al Teatro Ambra Jovinelli di Roma dal 27 novembre all’ 08 dicembre 2024
Dioggene, volutamente scritto con la g rafforzata del dialetto romano, è lo spettacolo di esordio in teatro di Giacomo Battiato, regista e sceneggiatore classe ’43 e una carriera televisiva e cinematografica pluripremiata. Uno spettacolo che, nelle parole dell’autore, è allo stesso tempo epico e grottesco, dolce e feroce. Partendo dal 1200 per arrivare ai nostri giorni, tre quadri che attraversano epoche e atmosfere diverse, Battiato evidenzia come ogni tempo storico in fin dei conti si ripeta e le tematiche, ricorrenti e sempre uguali, assumano inevitabilmente un carattere tristemente attuale: la stupidità umana; la violenza, declinata in ogni sua forma, dal conflitto genitore-figlio, alla violenza di genere, alla penosa e straziante brutalità della guerra; e, infine, il bisogno disperato e incessante di bellezza e amore (dal latino a-mors: senza morte), unica vera possibilità di riscatto e accesso privilegiato e diretto a un livello di esplorazione e maturazione dell’io, per ritrovare un senso della coscienza, personale e sociale, morale ed etica. In scena sul palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, dal 27 novembre e fino all’8 dicembre e poi ancora in tournee in altre città italiane, Dioggene è, in fine dei conti, una storia d’amore. Scritto e recitato in italiano del ‘200 nel primo atto e narrato nel terzo quadro in romanesco, antico e moderno si mescolano per portare, oltre ogni bruttura e meschinità che la vita presenta, un messaggio di speranza. Di questo messaggio si fa portavoce Stefano Fresi, volto noto e amato del piccolo e del grande schermo, a cui Giacomo Battiato dedica e affida la sua opera, protagonista assoluto di un monologo di novanta minuti, senza intervalli ad eccezione di una breve pausa per il cambio scena. Nei panni di Nemesio Rea, il personaggio attorno al quale ruota tutta la messa in scena, Fresi si confronta con un testo complesso, scritto in tre registri e lingue diversi e pregno di concetti e rimandi; una prova di memoria e di coraggio, una sfida che accoglie con grinta e un’indiscutibile bravura e professionalità e che restituisce al pubblico con commovente generosità e passione. Calato il sipario, accompagnato in ogni atto da una scenografia essenziale, capace di identificare in maniera chiara ognuno dei distinti momenti descritti nei tre quadri, Fresi appare come un vero e proprio mattatore: dal primo atto, Historia de Oddi
bifolco, passando per il secondo quadro, L’attore e il buon Dio, e per finire all’ultimo, Er cane de Via der Fosso D’a Maijana, sul palcoscenico sembrano avvicendarsi non uno bensì molteplici attori. La sua interpretazione è talmente vivida e la sua energia talmente potente che la sensazione è la stessa che si prova di fronte a un grande schermo di una sala cinematografica, con stimoli visivi e acustici in grado di generare un’esperienza immersiva. Una commedia (perché l’auspicio del regista è nel lieto fine) a più capitoli, che corrispondono agli stadi della vita di Nemesio, in una parabola che mostra al pubblico gli aspetti più infimi e quelli più illuminati dell’animo umano. Nel primo capitolo il regista propone un interessante espediente di metateatro: un giovane Nemesio Rea recita in uno spettacolo e indossa i panni del protagonista, un bifolco di nome Oddi, contadino di umili origini, abbandonato da un padre vile e assente, con il quale avrà per sempre un rapporto conflittuale, fino ad ucciderlo. Il pretesto è la battaglia di Montaperti tra Senesi e Fiorentini, che Oddi combatterà, quasi a sua insaputa, divenendo al tempo stesso vittima e carnefice. Accanto a Fresi (Nemesio/Oddi), scalzo e vestito di stracci, soltanto un enorme spaventapasseri; eppure, la guerra, quella interiore di Oddi contro il padre, e quella di giovani guelfi e ghibellini morti in battaglia, sembra prendere vita davanti agli astanti, così come l’odio di Oddi verso il padre, talmente palpabile che il coltello che maneggia per ucciderlo pare infilarsi nella carne viva, per quanto invisibile. Chiuso e riaperto il sipario, nel secondo episodio il pubblico ritrova Nemesio all’interno del suo camerino, dove si svolgerà l’intera scena, pronto per interpretare il ruolo del protagonista ne “Il Diavolo e il Buon Dio” di Sartre. Attore ormai acclamato e nel pieno della maturità attoriale, ogni sua certezza viene, tuttavia, scardinata via pochi minuti prima dell’inizio del suo importantissimo spettacolo, dalle parole taglienti della moglie Isabella, che in preda a una crisi e ormai certa di voler mettere fine al loro matrimonio, irrompe nel camerino,stravolgendo per sempre i destini di entrambi. In un’escalation di accuse e recriminazioni, Isabella interromperà il loro sposalizio, definendo Nemesio un “fasullo alessitimico di tipo due”. Interpretati entrambi da Fresi, che modula di volta in volta l’inflessione linguistica e la vocalità, per diventare prima Nemesio e poi Isabella, ora uomo, ora donna, ora
romano ora toscano, in un’incalzante botta e riposta dal sorriso amaro, tra l’ironico e il cinico, la scena non lascia nulla di inedito e ogni coppia può riconoscersi e immedesimarsi, finanche prendere spunto. Ormai cristallizzato sulle sue convinzioni, Nemesio, descritto come un uomo narcisista ed egocentrico, incapace di riconoscere le violenze perpetrate nei confronti della moglie, non può più mentire a sé stesso ed è costretto a porsi la più difficile delle domande: “dentro quel personaggio c’è il migliore attore di tutti; ma dentro l’attore, chi c’è?”. Privo di risposte, Nemesio crolla. L’ultimo episodio, probabilmente il più ridondante e meno convincente dei tre, è il momento catartico, la presa di coscienza. Il pubblico ritrova Nemesio all’interno di un enorme bidone della spazzatura, verde e con un graffito di un cane dagli occhiali scuri disegnato. Uscendo dalla pattumiera, con una lampadina tra le mani, sporco e con i piedi scalzi, Nemesio,
spogliato di ogni stortura, di ogni ricchezza fittizia, di ogni convinzione e libero dalle convenzioni sociali, persino dell’italiano forbito che sostituisce con il dialetto romanesco, più colloquiale e schietto, torna alle sue origini più autentiche e ritrova, nella semplicità, nella ricerca della verità, il senso più profondo di sé, addirittura la felicità. Con un escamotage da ritorno al futuro, Giacomo Battiato richiama, infine, alla memoria del pubblico in sala la storia di Diogene di Sinope, figlio di un banchiere, vissuto nel 412 a.C. e passato alla storia come il filosofo cinico per eccellenza. Spogliato di ogni bene materiale, visse l’intera esistenza in una botte, scegliendo una vita semplice. Caustico e provocatorio, oltraggioso e anticonvenzionale, Diogene urlava ai passanti la sua verità e, con una lanterna in mano, era alla costante ricerca del vero e dell’uomo. (“Dimmi tutto quello che desideri”, chiese Alessandro Magno. “Lasciami il sole”, rispose caustico Diogene). Che cosa penseresti, oggi, se, passeggiando tra le strade della tua città, ti imbattessi nelle urla abbaiate da un uomo trasandato e con i piedi scalzi? Riconosceresti nel coraggio delle sue parole la voce illuminata di un filosofo o, accelerando il passo, compatiresti la follia di un pover’uomo preso a pugni dalla vita? Forse questo è il peso della libertà, d’esser presi per folli. E forse, proprio per questo, Battiato ha scelto il palcoscenico del teatro, ha preso in prestito la voce e il corpo di Stefano Fresi e ha attinto alla storia di Diogene: per urlare liberamente, raggiunta l’età della saggezza, tutto ciò che desidera, senza esser creduto un pazzo; per risvegliare gli animi intorpiditi, per redarguire il pubblico in sala, che è la sua piazza, tutte le storture della vita e della stessa raccontare e ricordare le bellezze, la necessità di tornare ad amare e di ritrovare un senso del bello e del vero, del giusto. Giacomo Battiato, Stefano Fresi, Nemesio Rea e Oddi sono in fin dei conti la stessa persona e sono ognuna delle persone in sala, sedute ad assistere lo spettacolo. In conclusione, volendo usare le parole di Fresi: “dentro ogni persona ci sono aspetti di Nemesio: nella parte della giovinezza, nella parte della centralità della sua vita e nella parte della risoluzione finale. Siamo tutti un bel puzzle di tessere fresche, di tessere acerbe e di tessere marce. Bisognerebbe tagliare il tassello marcio, alimentare quello acerbo e mantenere quello maturo.”
Francesca Sposaro
17 dicembre 2024
informazioni
STEFANO FRESI in
DIOGGENE
Scritto e diretto da Giacomo Battiato
Musiche Germano Mazzocchetti
Costumi Valentina Monticelli
Scultore Oscar Aciar
Luci Marco Palmieri
Decoratore Bartolomeo Gobbo
Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo, Stefano Francioni Produzioni, Argot Produzioni