Recensione dello spettacolo Tangentopoli in scena al teatro Golden dal 21 marzo al 16 aprile 2017
Immaginiamo dei flash back. Immaginiamo di riavvolgere per un attimo la pellicola della nostra esistenza, dell’esistenza di un intero popolo, di un intero Paese. Fingiamo di tornare indietro di 25 anni: 1992, 17 febbraio. Al Pio Albergo Trivulzio s’inaugura la stagione di Tangentopoli: Mario Chiesa dà il via ad un’ondata che travolgerà come uno Tsunami tutto un sistema di corrotti, di corruzione e di finti (fino ad allora) incorruttibili sul quale si era adagiata da tempo una stanca e logora Prima Repubblica.
Eccolo il primo flash back. Basta dire, sottovoce, oppure a mente “Tangentopoli” ed ecco le prime immagini. Su foto a colori ma comunque un po’ ingiallite dalla memoria, i quattro che smascherarono i potenti, quei Cavalieri dell’Apocalisse che cavalcarono su una fanghiglia melmosa e motosa per alzare un velo denso che opprimeva l’Italia e quella Milano tutta “zucchero e catrame”: Di Pietro, D’Ambrosio, Colombo e Davigo, il pool di “Mani pulite” al completo. Su foto sbiadite in bianco e nero che tendono a svanire, gli altri protagonisti. Gli accusati che facevano a gara per diventare a loro volta accusatori. Colpevoli che si armeggiavano nel tentativo di diventare vittime. Rei e correi che chiusero il cerchio attorno ad un’unica grande, ingombrante ed indistinta figura: Bettino Craxi. Sullo sfondo, ancora un flash, quell’immagine patinata della Milano “da bere”, la Milano anni ’90 che “a gambe aperte ride e si diverte” ma che “quando piange, piange davvero”. Veloce la carrellata dei ricordi. Un flash e siamo al 30 aprile 1993 a Roma: una pioggia di monetine piovono sulla testa del “cinghialone” Craxi. L’arco di stelle che brillava aureo nel 1984 sull’ uomo della Provvidenza, ha il rumore freddo e sonante, nove anni dopo, del disprezzo e dell’odio di un’intera nazione. E poi i fatti, che mettono spalle al muro, che smascherano e condannano. Le immagini impresse a fuoco del processo Cusani: le domande repentine, a mo’ di raffica, di un giovane e audace Di Pietro, la saliva di Forlani, lo sguardo tagliente e obliquo di Bettino. Infine la Storia, quella con la esse maiuscola che va sui libri, che è innegabile e scritta, che è sentenza e ricordo: la maxi tangente Enimont, la fuga ad Hammamet, la malattia, la condanna in contumacia ed un processo mai avvenuto…
Frammenti di storia che riannodano il filo dei ricordi di un’Italia politica braccata, presa in fragrante e processata. Pezzi di vetro taglienti come lame nelle quale si rispecchia una società intera: fatta di “nani, ballerini, garofani e tv”.
Eccolo il contorno. Lo scenario intero di quello che Vincenzo Sinopoli e Andrea Maia (anche regista) hanno portato in scena al Teatro Golden di Roma. È questo il palcoscenico in cui “Tangentopoli” si narra ed è narrata. Attraverso “Tangentopoli” si racconta Tangentopoli. La storia si conosce, inchiostro è stato versato, inutile girarci attorno, ma cosa manca? Sembra questa la domanda che si pongono gli autori. Manca, forse, il fattore umano. Lasciamo da parte, per un attimo, le vicende che tanto animarono i lettori e le colonne dei giornali. Teniamo in conto, ovviamente, l’excursus del passato ma guardiamolo con l’occhio curioso dello spettatore che guarda l’uomo prima che il personaggio. Attraverso, quindi, la riproposizione, corretta e coerente di una storia fatta di corruzione e malaffare – come ci viene ricordato giustamente durante tutta la pièce teatrale – ecco ce Sebastiano Somma (nei panni di Di Pietro) e Augusto Zucchi (in quelli di Craxi) mettono in scena un duello. Un dibattimento inizialmente quasi verghiano, quindi a grattar con l’unghia sulla superficie, a tratti pirandelliano tra i due che si affrontano sul campo della giustizia, si confrontano su quello della politica e si sbilanciano su quello umano.
Perché, in fondo, “Tangentopoli – processo alla Prima Repubblica” parla esattamente di questo: di due uomini, l’uno contro l’altro, che si raccontano, cercando di tracciare di loro, attraverso le pieghe e le piaghe della storia, i difetti, i vizi, i sogni, le speranze…insomma l’animo tutto abietto o nobile che sia, imperfetto, impuro o candido che si vuole dar a vedere. Anche in questo caso, insomma, a farla da padrone è l’uomo. E a farla da padrone e protagonista, in scena, sono invece loro. Nei panni del magistrato Di Pietro si muove con abile disinvoltura e una ben calibrata sensibilità Sebastiano Somma, che non cede mai alla tentazione imitativa, né in quella caricaturale, offrendo la variegata oltre che tormentata umanità del personaggio. Al vertice opposto, sull’altro lato del palcoscenico, vi è Augusto Zucchi che regala un’immagine credibile, interiorizzata e sincera di un Craxi sofferente per la sua sorte quanto per il diabete e che si fa testimone, emblema e simbolo di quell’abitudine consolidata ai finanziamenti irregolari, prassi consolidata e condivisa di un sistema zoppicante e morente. Sul palco del Golden, gli attori, fino al 16 aprile, porteranno in scena un’immaginaria ultima udienza del processo a Craxi: l’ex Segretario del PSI e ex Presidente del Consiglio italiano, di ritorno a Milano da Hammamet, decide di presentarsi a sorpresa, davanti al tribunale di Milano dove ad attenderlo c’è Di Pietro. Nell’aula del tribunale va in scena l’incontro-scontro tra i due, un incontro che attraverso un dialogo vibrante, incisivo e non privo d’umorismo e sottile ironia, coinvolgerà emotivamente lo spettatore grazie a un gioco poetico che non vuole comunicare sentenze definitive, come se i protagonisti fossero degli ibridi che galleggiano, entrambi, tra la piena colpevolezza assodata ed un’ipotizzata quanto chimerica innocenza anelata. Il tutto serve, quindi, a dare il là a considerazioni sul presente, su ciò che siamo stati e che siamo, su quello che eravamo e che, nonostante tutto, ci ostiniamo ad essere e sempre aleggia convinta quella strana sensazione che nulla sia cambiato.
Federico Cirillo
28 marzo 2017