Recensione di ‘La Cenerentola’, in scena a Trieste dal 26 aprile al 5 maggio 2024
La stagione triestina, dopo un ‘Nabucco’ controverso, ritorna con un titolo rossiniano: ‘La Cenerentola’.
La platea piena ed i palchi affollati , con una forte componente internazionale, testimoniano il gradimento di questo titolo, che nel dopoguerra è apparso con apprezzata frequenza nella programmazione del Verdi.
Diciamo subito che siamo davanti ad un successo, ampio, meritato, che premia una proposta di grande interesse.
Partiamo dall’aspetto visivo: si trattava di uno spettacolo, firmato registicamente da Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi , che rende omaggio al grande scenografo Luzzati, che peraltro nel 1976 propose a Trieste nel una ‘Carmen’ sonoramente fischiata proprio per l’allestimento giudicato allora troppo avanguardistico e che oggi definiremmo tradizionale e molto ‘tranquillo’.
Il sipario si apre rivelando un teatro nel teatro, con una cornice di palchetti rossi, al cui interno si alternano la cucina di don Magnifico, uno scorcio del giardino di corte, il salone del palazzo del re, tutti suggeriti con un agile gioco di elementi costruiti mobili.
Per cogliere il senso del grande lavoro di recupero delle atmosfere dell’artista genovese svolto dal team registico, è fondamentale soffermarsi sulle sfumature: il movimento concitato dei coristi emula quello dei personaggi dei suoi cartoni animati; quando compaiono dei dissonanti telefoni, non è per una svista temporale, ma perché erano elemento ricorrente, per esempio, nella serie dei pulcinella; analogamente i giocatori di tennis, guarniti di una parrucca arancione più odiernamente ‘sinneriana’, riprendono sia una celebre serie di serigrafie, che un cartone che ha commosso generazioni di bambini.
Insomma, al di la dell’apparenza cromatica e della piacevolezza visiva, supportata anche dai contributi video di Giuseppe Ragazzini, c’è molto affetto nei confronti di Lele, come lo chiamavano amici ed ammiratori, del quale non si cerca di ricostruire un allestimento perduto, quanto piuttosto di evocare la vitalità del messaggio, l’immortalità della sua poesia visiva .
Analogamente i costumi, ripresi da Nicoletta Ceccolini citano puntualmente la grande produzione di questo eclettico artista, capace di viaggiare su piani paralleli con grande raffinatezza.
In definitiva, una autentica operazione culturale di grande livello, che va digerita, non perché sia ostica, ma perché dopo il primo approccio si aprono tanti piani di lettura, spesso molto articolati.
Pensiamo solo al momento in cui ad Angelina appaiono, quasi come se fosse sogno, gli abiti per la festa. Il grande velo è azzurro: echeggia sogno, cielo, astrazione, mito. La fanciulla sembra ancora non credere a quello che le viene offerto.
Potrebbe essere una delle tante delusioni di una vita piena di avversità. Invece è tutto reale e quando ne prende consapevolezza, va alla festa ed entra con un velo rosso: il colore della vita reale.
Il racconto del passaggio da fantasia a realtà, da sogno e concretezza, che cosi bene sono descritti dalla musica di Rossini, prendono forma visiva con un piccolo gesto pittorico, che qualcuno potrebbe leggere addirittura come un errore: a ricordare che l’Arte, in qualunque forma si manifesti, non è per tutti.
Ci sono tanti di questi gioielli disseminati per lo spettacolo, a sottolineare la volontà estrema di non cadere in quegli stereotipi che troppe volte hanno banalizzato il lavoro rossiniano: non è una storia per bambini, ma una narrazione quasi filosofica sui temi della pietas, del sopruso, del perdono, della carità, del bullismo.
Anche musicalmente spesso abbiamo sentito esecuzioni che puntavano all’orchestrazione vacuamente pirotecnica, ad un canto virtuosistico fine a se stesso.
Non è stato questo il caso.
Il Maestro Calesso ha offerto una lettura preziosa, essenziale, pulitissima, di commovente lirismo, dimostrandosi ancora una volta artista dotto, studioso attento, ma soprattutto mai scontato, mai banale, minuzioso senza essere stucchevole.
Ha guidato con mano sicura l’orchestra del Verdi, che ha trovato una forma smagliante, regalandoci un’interpretazione piena di sfumature, con tempi sapienti, senza sottolineature di maniera.
Già dalla Sinfonia iniziale si coglie il senso del lavoro di cesello sul suono dei singoli strumenti, il respiro di una lettura che esalta i passaggi più raffinati della partitura, con stacchi di abbagliante nitore ed un crescendo coinvolgente, rigoroso, senza sbavature, che conquista la platea.
Magnifico il lavoro di accompagnamento dei cantanti, sia nelle grandi arie che nei numerosi e complessi pezzi d’insieme, che hanno permesso di mettere in evidenza, nello scorrere della narrazione, pagine differenti per pathos e suggestioni, come lo straordinario quintetto ‘Nel volto estatico’.
Una tavolozza espressiva che il pubblico ha premiato con applausi convinti che a fine spettacolo sono diventati trionfali .
La scelta di questo musicista come direttore stabile appare quanto mai fortunata e certamente Calesso potrà essere un tassello fondamentale per la ripartenza del teatro triestino.
Il coro maschile, diretto dal Maestro Longo, ha grande peso nella partitura.
Certamente all’altezza della situazione, anche se alle volte i volumi sembravano scivolare fuori controllo, probabilmente per una comprensibile tendenza a spingere il suono, legata forse alle caratteristiche dell’organico in questo momento.
Veniamo quindi alle voci.
Matteo D’Apolito è un efficace Alidoro, dalla voce non particolarmente potente ma ben impostata. Si muove con eleganza e credibilità ed esegue con correttezza le sue arie, in particolare ‘Là del ciel nell'arcano profondo’, cantata con garbo e misura .
Federica Sardella è una Clorinda buffa e piacevole. In qualche passaggio potrebbe curare meglio la dizione ed alle volte la voce è soverchiata, soprattutto dal coro, ma sgambetta, canta, recita, trascina, si trasforma da ragazza avvenente in una zitella un po’ gobba che si muove con sapiente sguaiatezza. Riesce a trovare colori appropriatamente stridenti ed a raccontare l’invidia con abilità.
Tisbe è l’altrettanto ridicola Carlotta Vichi. Dotata di una voce interessante, la pone al servizio di un personaggio centratissimo: una specie di bambolina, al tempo stesso assassina e pavida, acida ma paurosa. Una di quelle bambine capricciose pronte a calpestare tutti pur di appagare le aspettative paterne.
Un piacere vedere, in queste due cantanti, tanta capacità di mettersi in gioco scenicamente, con un senso della misura che le ha fatte essere grottesche senza scivolare mai nell’eccesso e mantenendo la consapevolezza del proprio strumento, che ha permesso loro di non penalizzare l’aspetto vocale in nome di quello attoriale.
Dave Monaco era Don Ramiro. La parte è proibitiva ed il tenore, fra le voci giovani di maggior interesse, ha superato le insidie senza esitazioni inerpicandovi nel pentagramma con sicurezza, concentrandosi più sulle note che sulle frasi.
La voce è ben educata, francamente piccola e la resa scenica un po’ generica, forse proprio per la preoccupazione delle richieste della partitura, ma il ruolo è risolto con onore .
Giorgio Caoduro è Dandini e Carlo Lepore è Don Magnifico.
Nel senso che difficilmente in questo momento è possibile pensare ad una coppia di cantanti più adatti di loro per questi ruoli, oltretutto capaci di una intesa scenica e vocale assoluta, in grado di prendere il pubblico per mano e guidarlo nei meandri affascinanti della magia di Rossini.
Quello che offrono in momenti come ‘Un segreto d’ importanza’ è una autentica lezione di canto rossiniano, che difficilmente potrà essere dimenticata dal pubblico.
Lepore è probabilmente il basso buffo rossiniano di maggior spessore oggi sulle scene, capace di grande comunicatività, spiritoso, divertente, mai scontato o volgare.
Il suo personaggio ha i vizi dell’arrivista, l’ipocrisia di chi punta a scalare i gradini sociali e per farlo è pronto a calpestare affetti e valori.
Attento nei movimenti, ricco di una mimica facciale raffinata, dal punto di vista vocale è dotato di uno strumento dai moltissimi colori, un centro solido, acuti sicuri e piega tutta questa opulenza alle necessità espressive del canto. Non perdiamo una sola parola del testo, ed ogni termine viene pastellato dalla giusta sfumatura, dall’adeguato accento.
Giorgio Caoduro, che ritorna nel teatro della sua città d’adozione dopo dodici anni e non riusciamo a trovare giustificazione per questo averlo tenuto lontano dalle scene di casa per tanto tempo, è attore straordinario. In questo tempo la voce non ha perso smalto, ma anzi ha guadagnato in sfumature, colori, spessore.
Dotato di una straordinaria capacità attoriale che lo rende interprete arguto, spiritoso ma mai ridicolo, recita con l’espressione del volto, con i movimenti del corpo, con i gesti delle mani.
Racconta le varie fasi del suo personaggio con il modo di procedere, con la postura della schiena, con i gesti con cui si aggiusta la giacca.
Niente è per caso, ma tutto appare estremamente naturale, autentico.
Ma accanto a tutto ciò, che già sarebbe tanto, incanta con un canto virtuosistico ammaliante, una tecnica infallibile, una estensione omogenea che spazia dal registro del basso alle note alte del baritono.
C’è un susseguirsi di sfumature, un rincorrersi di colori, una solidità marmorea degli acuti, fiati sontuosi.
La parola è scolpita nel suo significato più profondo ed è una gioia cogliere le sfumature del testo, che Caoduro porge con una classe ed un garbo esemplari che lo consacrano fra i grandi interpreti di riferimento per il repertorio rossiniano.
Laura Verrecchia è stata una convincente protagonista, confermando l’ottima impressione ricevuta in occasione di ‘ I Capuleti e i Montecchi’ e di ‘Anna Bolena’.
Già dall’iniziale ‘C’era un re’, cantato nel buio della cucina cogliamo la volontà di una interpretazione profonda, quasi metateatrale, che non renda mai il testo subalterno alla musica, ma al tempo stesso consenta di mettere in evidenza la preziosità della partitura, racconti le sensazioni di Angelina attraverso i toni bruniti di una voce ricca di sfumature, che riesce a descrivere il rimpianto, la delusione, la determinazione, la gioia ed il perdono. Non una fanciulla succube ma una donna determinata ad essere se’ stessa, indisponibile a compromessi, moderna e coraggiosa, proprio come voleva Rossini.
Il mezzosoprano vanta una estensione ampia, un volume potente , acuti sicuri ed un colore accattivante, ma soprattutto la capacità di entrare nel personaggio, regalando una interpretazione intensa, mai compiaciuta. Sfugge dalla trappole del virtuosismo fine a se stesso, regalando alla parte uno spessore drammatico raffinato, alieno da manierismi e stereotipi, grazie ad una tecnica sicura unita ad una sensibilità interpretativa commovente.
Alla fine tanti applausi per tutti, con autentiche ovazioni per Lepore, Verrecchia, Caoduro e per il Maestro Calesso.
Una scommessa vinta dal teatro, a dimostrazione che la strada della vera qualità è quella vincente.
Gianluca Macovez
30 aprile 2024
informazioni
Trieste, Teatro Giuseppe Verdi, stagione d’opera e balletto 2023-24
“La Cenerentola”
di Gioachino Rossini
Dramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti
Maestro Concertatore e Direttore ENRICO CALESSO
Regia PAOLO GAVAZZENI e PIERO MARANGHI
Costumi ripresi da NICOLETTA CECCOLINI
Contributi video a cura di GIUSEPPE RAGAZZINI
Scene e costumi ispirati all'allestimento di EMANUELE LUZZATI
Maestro del Coro PAOLO LONGO
Allestimento della FONDAZIONE TEATRO CARLO FELICE DI GENOVA
Personaggi e interpreti
Angelina LAURA VERRECCHIA
Don Ramiro DAVE MONACO
Don Magnifico CARLO LEPORE
Dandini GIORGIO CAODURO
Alidoro MATTEO D’APOLITO
Tisbe CARLOTTA VICHI
Clorinda FEDERICA SARDELLA
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Allestimento della FONDAZIONE TEATRO CARLO FELICE DI GENOVA
Trieste, 28 aprile 2024