Femininum Maskulinum in scena al Teatro “La Comunità di Roma” dal 3 al 21 aprile e dal 23 al 28 aprile al Teatro “La Pergola” di Firenze
Lo storico Teatro della Comunità fondato da Giancarlo Sepe nel 1972, accoglie un operazione difficile che però il regista riesce a sviluppare tenendo fede agli elementi caratteristici delle sue produzioni, quali la centralità della musica, l’utilizzo dei corpi, l’intensità di alcuni tableau vivant che spesso, in una manciata di secondi, narrano in modo esaustivo un determinato frame narrativo. Lo spettacolo è attraversato da una grande carnalità, nella cornice sanguigna delle scenografie realizzate dal Laboratorio di Scenografia del Teatro Della Pergola di Firenze, che lo ospiterà dal 23 al 28 aprile. “Femininum Maskulinum”, prodotto dal Teatro Nazionale della Toscana, racconta il periodo che vide l’ascesa al potere di Hitler, una zona convulsa di eventi ovviamente drammatici, ma non priva di divertimenti e cruda carnalità.
Lo spettacolo adotta il punto di vista degli artisti, degli intellettuali, scrittori e musicisti che animavano i Kabaret berlinesi all’inizio degli anni Trenta e che assistono al sorgere dell’ideologia nazista e del suo orrore, che però si troveranno presto a perdere completamente la loro identità, fagocitati anch’essi dall’ orrore. E’ strano come la stessa ubicazione del teatro in un certo modo riporti in modo forse involontario a vivere un’esperienza immersiva enfatizzata dai colori del palco. Per raggiungere i palco del Teatro della Comunità, istituzione cinquantennale nel cuore di Roma, bisogna scendere un paio di rampe di scale, sotto il livello della strada. La scenografia, assolutamente scarna ha però un impatto visivo forte sullo spettatore, un fondo di rosso e nero che colora tutte le pareti e che nel corso dello spettacolo enfatizzerà il senso di morte e di orrore di alcune scene. Ad accogliere lo spettatore uno scalino lungo la scena sul quale sono scritte le parole “Femininum Maskulinum” e i corpi nudi di un uomo e una donna che si vestono, si svestono e si travestono, quasi a indicare la confusione generale non solo storica e sociale, ma che trasforma anche le identità di genere. A fare da filo conduttore sono le vicende biografiche del premio Nobel Thomas Mann e dei suoi figli, stereotipi di quel tempo e della difficoltà di vivere la propria identità liberamente. Come in tutti i lavori di Giancarlo Sepe la musica si fa elemento centrale.
Lui stesso dice in un’intervista: «Da sempre lavoro con la musica e sulla musica. Per questo spettacolo ho selezionato circa mille brani musicali, appuntando accanto a ogni brano a cosa potrebbe far pensare, cosa potrebbe evocare. Mettendone due in concorso, possono offrire spunti diversi sulla costruzione della stessa scena. Per cui prima penso, scrivo, e poi vado in verifica con il montaggio, cui partecipano direttamente le musiche, le luci e le scenografie. Ma nasce tutto da una sollecitazione musicale che è sempre imperativa, non perché dia la cinesi della scena, ma perché le fornisce lo spirito». I brani che Sepe sceglie sono in lingue diverse, ovviamente il tedesco, ma anche inglese, francese, italiano, una commistione di idiomi differenti in cui gli attori si muovono davvero con una incredibile facilità. I dodici attori in scena sono davvero virtuosi, non privano lo spettatore di nulla, non si risparmiano.
La trasformazione continua li fa divenire in pochi secondi, cantanti, attori, fini trasformisti, ballerini, ma soprattutto corpi. La corporeità è spesso il motivo dominante delle azioni, il processo creativo viaggia quasi unicamente seguendo il percorso dei corpi, sottraendo l’attenzione sui sentimenti e le emozioni. Questo è un processo assai interessante, poiché a nostro parere descrive esattamente lo stato in cui si vivevano probabilmente quegli anni. Giorni in cui non era permesso nessuna emozione, se non come fatto assolutamente privato. Giorni in cui fare e non pensare. «La storia è scritta e fatta da uomini e donne. Questo concetto molto semplice apre un discorso di genere: dove c’è chi combatte il genere, ci sono anche quelli che lo vivono appieno». In questa storia di uomini e donne troviamo sul palco delle strane commistioni, ad esempio Hitler che incontra Al Capone, quasi a lasciargli il testimone, lo scettro del male. Non c’è a questo punto una luogo che fomenta il terrore, ma ogni luogo, anche i salvifici Stati Uniti possono farsi zone di guerra, anzi di guerriglia urbana. .
Sepe restituisce le inquietudini di un’epoca che forse ancora non abbiamo compreso davvero, senza farne un’azione né didattica, né educativa, forse neanche necessariamente divulgativa. Non ci sono vincoli su questo palco, sicuramente la libertà è la matrice prima del racconto. La compagnia utilizzata per questo spettacolo consta di otto nuove presenze rispetto agli abituali attori, anche questa scelta Sepe la racconta come: «…un bisogno di una sostanza più reattiva, meno legata a me, che portasse cose nuove. Sono pronti e disponibili, anche se il lavoro che hanno fatto è stato durissimo: dalle improvvisazioni è emersa un’onomatopea dello spettacolo, che poi ha preso forma nelle varie scene con un continuo lavoro di messa a fuoco». Uno spettacolo evidentemente forte e spiazzante, quel tipo di “male” ancora non è stato del tutto metabolizzato; eppure indispensabile.
Barbara Chiappa
8 aprile 2024