Recensione di Hybris di Antonio Rezza e Flavia Mastrella in scena al Teatro Vascello dal 3 al 14 gennaio 2024
Una porta: l’elemento cardine della drammaturgia di Hybris è questo oggetto onnipresente in scena, essenziale alla rappresentazione al pari di un attore aggiunto. Ha il ruolo di delimitare idealmente gli spazi sul palcoscenico, crea una separazione tra un fuori e un dentro, tra ciò che ci appartiene e non appartiene, suscitando una serie di interrogativi al nostro protagonista Rezza, ma indirettamente a noi pubblico: se non ci fosse stato il dentro, sarebbe esistito il fuori? Sembrano essere in discussione le categorie su cui si struttura la proprietà personale, la nostra economia, la nostra società, ma conoscendo lo stile dell’autore protagonista, non ci meravigliamo affatto vista la sua vocazione anarchica a distruggere tutto ciò che è conformista, banale, consueto, tradizionale e limitante della libertà umana. In un’atmosfera estraniante e delirante, la porta diventa il leit motiv della drammaturgia permettendo al nostro attore di entrare ed uscire da tante situazioni di vita quotidiana, familiare, sociale: con un tale espediente bussa e si introduce nelle vite degli altri personaggi (rigorosamente muti, veniamo a conoscenza di loro dalle battute di Rezza).
Si apre metaforicamente uno squarcio su molteplici aspetti che coinvolgono l’uomo contemporaneo: la politica, i partiti, l’eutanasia, ma un bersaglio privilegiato della serata diventa l’istituzione della famiglia e le relazioni sentimentali. Con la consueta irriverente, sarcastica a tratti cinica ironia, viene eliminato il velo dell’ipocrisia che avvolge la famiglia tradizionale, in cui convivono estranei infelici che si fingono vicini. Stesso trattamento per i rapporti di coppia a cui non si fanno sconti: sono descritti provocatoriamente e ironicamente come luoghi di frustrazione e di infelicità. Ma la porta, il perno della rappresentazione, ad un certo punto, con la fatidica richiesta prima di aprire: “Chi è?” diventa occasione per metterci di fronte a dei risvolti esistenziali sul chi siamo davvero, se siamo reali o siamo solo proiezioni dell’inconscio. Come sempre, anche in questa pièce, le creazioni di Flavia Mastrella dislocate sulla scena fungono da ausilio allo sviluppo della performance, che realizza i personaggi ricorrendo a queste parti della scenografia.
Il genio dell’autore/attore si esplicita anche nel linguaggio, costruito su giochi di assonanze e di richiami tra parole e concetti da cui si articolano monologhi/dialoghi complessi rigorosamente esilaranti ma mai banali, che bastonano l’uomo comune nelle sue rassicuranti convinzioni e certezze quotidiane. Inoltre la drammaturgia riesce ad armonizzare caratteristiche apparentemente opposte: pur giungendo a vere e proprie vette di blasfemia e di irriverenza, il substrato sottostante il testo è estremamente colto e raffinato con riferimenti al pensiero politico della Sinistra e ai grandi filosofi del passato come Kierkegaard, Schopenhauer e Kant di cui viene parodiata la celebre massima: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, in un’ottica naturalmente dissacrante e provocatoria. Anche in questo spettacolo, si riconferma l’inarrestabile energia del protagonista che utilizza in modo massiccio il linguaggio del corpo sempre impegnato in una gestualità e un’espressività caricaturale coadiuvate da un lavoro anche sulla voce che acquisisce tonalità e sfumature differenti a seconda dei casi. Come in ogni spettacolo del duo Rezza-Mastrella, il pubblico in sala partecipa pienamente alla surreale e delirante atmosfera in scena, divertendosi ma ridendo spesso in modo amaro, andando via sentendosi fustigato alla stregua dei personaggi in scena.
Mena Zarrelli
11 gennaio 2024