Lunedì, 16 Settembre 2024
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Le memorie di Ivàn Karamazov: spin-off di un personaggio in cerca di un finale tra verità e libertà assoluta

Recensione dello spettacolo Le memorie di Ivàn Karamazov in scena al Teatro Vascello di Roma dal 10 al 22 ottobre 2023 

 

Settanta minuti di Teatro, ininterrotti. Un complesso monologo e un’incredibile prova di memoria che avanza senza interruzioni, se non nelle pause cadenzate con tecnica precisione. Una recitazione intensa, teatrale, immersiva, commovente, appagante. Al Teatro Vascello di Roma, dal 10 al 22 ottobre uno dei protagonisti più controversi e irrisolti della penna di Dostoevsckij rivive in “le Memorie di Ivan Karamazov”, con la drammaturgia di Luca Micheletti e di Umberto Orsini, unico attore protagonista. A lui, alla sua magistralità interpretativa il pubblico, addomesticato e annichilito, si prostra inerme e all’annuncio dell’inizio dello spettacolo, calato il buio, obbedisce rivelando un ossequioso silenzio.

Un occhio di bue si accende sulla figura ormai matura di Orsini che, quasi non fosse più riuscito a disfarsene dal loro primo incontro nel lontano 1969, avvolto in un caldo trench, un cilindro per cappello e lunghi stivali neri ai piedi, si ritrova, ancora una volta, a indossare i panni di Ivàn Karamazov. L’idea evidentemente ambiziosa del duo Orsini-Micheletti, nata e condivisa ormai dieci anni fa in occasione di una tournee, è quella di creare uno spin off dell’originale dostoevskijano “I fratelli Karamazov”, mostrando una volontà quasi pirandelliana di dare seguito alla storia di un personaggio che l’autore lascia nel suo romanzo senza un finale, trincerato in un’aula di tribunale in preda ai suoi deliri, apparentemente irrisolto. “Scomparso? Ma io sono convinto che la vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa. Reclamo il mio finale. Si metta a verbale”.

In questa battuta, presa in prestito, è racchiuso l’intento del complesso lavoro di rielaborazione e adattamento del testo che Orsini/Micheletti affrontano per dare vita a una creatura, quella di Ivàn, non più finita bensì in-finita, in un processo di smascheramento della verità che, nelle parole dello stesso Micheletti, è il senso della loro operazione teatrale. Tutti i componenti della famiglia Karamazov, tranne Ivàn, piegato sui suoi stessi pensieri e sospeso in filosofiche riflessioni esistenziali, hanno, infatti, nella trama un chiaro epilogo: il lussurioso e odiato padre Fëdor muore per mano del figlio illegittimo Smerdjiakov, relegato al ruolo di servo; Smerdijakov, dopo aver confessato al fratello Ivàn l’atto omicida nei confronti del padre e, consegnati i 3000 rubli in pegno, averlo accusato di essere il vero colpevole e di averlo di fatto indotto attraverso le sue parole a commettere il grave atto, timoroso delle conseguenze si uccide impiccandosi; Dimitrij, che con il padre condivide la passione per le donne e in particolare per Grušen’ka, ritenuta dai giudici la testimonianza di Ivan infondata, viene accusato del parricidio e deportato in Siberia. Infine, il monaco Alëša, il più giovane tra i fratelli, a cui Ivàn è legato per affetto ma distante per ideologia, nell’intenzione dell’autore avrebbe trovato seguito come protagonista nella storia mai più compiuta di Dostojeski.

Attraverso una regia impeccabile e una fotografia sensazionale che rende ogni scena un fotogramma, la storia di Ivàn riprende esattamente da dove era stata interrotta. Accompagnata da effetti speciali e sonorità puntellanti, una scenografia austera e desolata colloca lo spettatore nella Russia del tardo Ottocento.  Un tappeto di piume bianche, in parte a terra e in parte spioventi dall’alto (raffinato richiamo alla discesa di Dio in terra) ricorda la neve e folate di vento soffiano il gelo del nord fino a raggiungere l’interno di quell’aula di tribunale, sapientemente ricostruita, dove per l’ultima volta il lettore ha incontrato Ivàn, in preda a febbri cerebrali, testimone del parricidio commesso per mano del fratello Smerdjiakov. Così in quell’occhio di bue attore e personaggio si ritrovano, invecchiati e stanchi, a raccontarsi le proprie memorie, a condividere una stessa sedia, che è insieme il banco degli imputati ma anche l’incarnazione di suo fratello Alëša, con cui Ivàn/Orsini, rientrando letteralmente nel testo originale, durante lo spettacolo apre sul capolavoro del Grande Inquisitore e immagina di avere con lui un dialogo profondo e accorato sull’esistenza di Dio.

In un gioco di doppi che caratterizza la performance dall’inizio alla fine, Ivàn, alle prese con le proprie memorie (“un confuso ammasso di pensieri” che scende dall’alto come fogli scompaginati) e con il suo Demone (interiore?), che entra prepotentemente da una porta socchiusa o si affaccia sospirando da una botola accesa da una calda luce gialla, facendolo oscillare tra fede e incredulità come un fantoccio nichilista, si muove nello spazio scenico con rigore e intelligenza registica, salendo e scendendo i gradini della cattedra inquisitoria, che svelerà presto un grande crocifisso su uno specchio riflesso, colpevole e innocente allo stesso tempo. La narrazione dei fatti riecheggia nella testa di Ivan ma anche in sala, attraverso l’ingresso di un fonografo che rinvia l’eco di una voce lontana, giovane, quella dell’Ivàn del 1969, di un riuscito sceneggiato RAI che ha reso iconico il connubio Orsini/Ivàn.

Tutti i più importanti quesiti e concetti filosofico-esistenziali presenti nelle oltre 800 pagine del tomo dostoevskijano vengono qui condensati in maniera armonica e conclusa nonostante la riduzione, in uno spettacolo di poco più di un’ora: la Verità, la Libertà, il Mistero, l’urgenza dell’esistenza di “un” Dio, il nichilismo, la necessità dell’uomo di genuflettersi di fronte a un’autorità che li deresponsabilizzi, incapaci di assumere su di loro il peso gravoso della libertà, di rimanere soli, in cerca perenne di una guida “sotto cui riunirsi come in un confortevole formicaio”, come un gregge. Lo spettacolo si chiude come la vita, gelidi rintocchi di orologio, con una metafora sollevata in apertura su un chicco di grano, una considerazione sul Tempo, da sempre nemico dell’esistenza umana ma anche strumento necessario per riconoscere la Vita, un invito ad amarla fino ad accettarne, prologo ineludibile, la morte. Così si conclude un’opera ambiziosa, che, se probabilmente non riesce pienamente nell’intento di attribuire un’identità postuma all’Ivan dell’originale, lascia certamente il pubblico in sala sbigottito, ammaliato e assorto in interrogativi sempre attuali e moderni, che rappresentano la storia del pensiero umano. Lo scroscio di applausi che si leva sul finale è un tributo alla regia di Luca Micheletti e alla teatralità di Umberto Orsini che, acclamato, salutando ricambia soddisfatto e compiaciuto. 

 

Francesca Sposaro 

13 ottobre 2023

 

informazioni

LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV

dal romanzo di Fëdor M. Dostoevskij

con Umberto Orsini

drammaturgia di Umberto Orsini e Luca Micheletti

regia LUCA MICHELETTI
scene Giacomo Andrico
costumi Daniele Gelsi
suono Alessandro Saviozzi
luci Carlo Pediani
assistente alla regia Francesco Martucci

produzione Compagnia Umberto Orsini

Durata: 70’

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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