Sabato, 23 Novembre 2024
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“Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”: la storia dei I Vicerè al Teatro Quirino di Roma

Recensione de I Vicerè in scena al Teatro Quirino dal 29 novembre al 5 dicembre 2022

 

Siamo nell’Italia risorgimentale, nel periodo a cavallo tra le ultime luci del regno borbonico e la nascita dello stato unitario. Precisamente ci troviamo in Sicilia, a Catania, e assistiamo a questo fondamentale momento evolutivo della storia italiana, attraverso le vicende che coinvolgono tre generazioni appartenenti alla famiglia Uzeda di Frascalanza, discendente dei Vicerè spagnoli da cui l’opera trae il titolo. La mente di Federico De Roberto, l’autore del romanzo da cui è stato partorito l’adattamento teatrale, ci immette in un spaccato di vita sociale la cui narrazione si dipana attraverso dinamiche di potere, denaro e ipocrisia sociale. Al pari di Tomaso da Lampedusa per i contenuti e di Verga per il potente impianto narrativo naturalistico, i Vicerè risultano un ritratto realistico e agghiacciante di un’Italia meridionale conservatrice e reazionaria, attaccata allo status quo e intenzionata a perpetuare le disuguaglianze sociali tra le classi privilegiate e quelle subalterne, nonostante si proclamino gli ideali risorgimentali e gli ideali di libertà e democrazia. All’interno di un ambiente familiare anaffettivo e votato solo alla ricerca del potere, alcuni personaggi provano ad essere autentici e a scardinare le dinamiche familiari, come nel caso della zia Lucrezia che, contro tutti, sposerà Giulente, un rivoluzionario seguace di Cavour, o come nel caso di Consalvo, che incarna il modello del ribelle che passerà tutta la vita in opposizione col padre. Entrambi però subiranno una metamorfosi che li porterà ad assimilarsi al resto della famiglia sul finale. 

I Vicerè si possono considerare un capolavoro della narrativa verista, purtroppo ancora ignorato nei percorsi scolastici tradizionali e spesso sottovalutato. Solo negli ultimi decenni la critica ha riconosciuto la potenza narrativa di una storia che ci narra il fallimento degli ideali risorgimentali, ci descrive un’occasione mancata per creare l’Italia, sintetizzata dalla frase riportato nel testo: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…”. In sostanza, sono mutate le strutture politiche, ma di fatto tra regno borbonico e stato nazionale, non è cambiata la mentalità arretrata, conservatrice, truffaldina e votata alle disuguaglianze sociali delle classi nobiliare preunitarie.

L’adattamento teatrale di Pippo Pattavina si rivela apprezzabile seppur impegnativo e coraggioso: ridurre una narrazione così ampia e complessa a una manciata di ore implica il necessario taglio di molti passaggi interessanti per non perdere di vista il filo conduttore della trama. Rispetto all’opera originaria e alla versione cinematografica di Roberto Faenza, in cui è preponderante il personaggio di Consalvo, la regia di Guglielmo Ferri adotta un inedito narratore, un personaggio apparentemente secondario: lo zio, don Blasco. Questa originale decisione si rivela da subito felice: don Blasco è un monaco scanzonato, dall’intelletto vivace, in questo contesto s’intesta il ruolo di voce narrante che racconta, osserva, giudica, critica, disvela le ipocrisie, i legami non autentici, l’aspirazione al potere della sua famiglia. Don Blasco risulta il personaggio più riuscito e meglio caratterizzato grazie ad un’interpretazione brillante di Sebastiano Tringali, che si muove con destrezza e disinvoltura nei panni dello scaltro monaco. Il suo personaggio e il suo talento, da soli, reggono l’intera intelaiatura drammaturgica, costituendo il cardine attorno a cui ruotano tutti gli altri ruoli. Altrettanto riuscita la recitazione degli attori che lo affiancano, come nel caso di Don Giacomo, di Lucrezia, di Zia Fernanda e del piccolo Consalvo, che invece da adulto, a tratti, perde naturalezza. 

Gli arredi sono proiettati con luci calde su panneggi costituiti da frange sottilissime dall’effetto dinamico e leggermente fluttuanti, creando un’atmosfera trasognata, surreale. La scena ne risulta divisa in due spazi scenici: un primo dinanzi agli spettatori separato dallo sfondo da tali tende. Sullo sfondo le pareti mutano in base ai cambi scena sempre grazie ai raffinati, ricercati disegni proiettati al fine di ricreare gli appartamenti dei protagonisti. Ne risulta una scenografia elegante e raffinata, come i costumi curati in ogni dettaglio nella loro ricercatezza. 

Il pubblico in sala non perde mai l’attenzione nonostante la lunga durata e si fa avvincere e coinvolgere da uno spettacolo ben riuscito, grazie ad una molteplicità di ingredienti ben assortiti. La numerosa presenza di classi provenienti da istituti superiori, incoraggia a pensare che il teatro costituisca un importante veicolo di conoscenza e di avvicinamento alla grande letteratura, non solo per le scuole, ma anche per il grande pubblico.

 

Mena Zarrelli

4 dicembre 2022

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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