Recensione dello spettacolo Girl in the machine, in scena al Teatro Belli dal 9 al 14 novembre 2021, nell’ambito di Trend-nuove frontiere della scena britannica
L’avvincente dramma di Stef Smith racconta di un mondo distopico e fantascientifico in cui le persone sono inventariate, controllate, portano microchip sottopelle; corporeo e virtuale si fondono senza limiti, felicità e terrore sono emozioni liquide. Tutto è enormemente pianificato, ma disumanizzato.
Owen (Edoardo Purgatori) preserva quel tanto di umanità che basta a difendersi dalle insidie dell’universo digitalizzato in cui vive: lavora come infermiere e non reprime mai istintività, calore o desiderio. Tutte caratteristiche che smorzano il rigore di sua moglie Polly (Liliana Fiorelli). Lei è iperconnessa, circondata da dispositivi digitali continuamente tintinnanti, votata alla carriera, orientata al successo, sempre vigile, orgogliosa del suo microchip.
Polly è completamente aderente al mondo in cui vive. Owen, preoccupato per gli elevati livelli di stress della moglie, le regala black box – un dispositivo utilizzato in ospedale per curare ansia e depressione. È convinto che la macchina possa aiutarla: il soggetto, connettendosi a black box, raggiunge uno stato vegetativo profondissimo. Polly ne diventerà dipendente.
Connessione è la parola chiave che muove intrinsecamente il dramma e non solo nel suo significato tecnologico. Si tratta di quella connessione sfuggente di cui si nutre il mondo disumanizzato: un limbo in cui i corpi diventano gelatinosi e la psiche friabile. Il legame tanto carnale e vivace, unico appiglio alla realtà per i due protagonisti, sarà disintegrato dalla capacità di annullamento che procura black box. Galleggiare nel vuoto, sospendere l’esistenza saranno le esperienze più intense mai provate da Polly.
Il regista Maurizio Mario Pepe riesce a condensare la penna tanto complessa e densa di Smith, restituendo l’atmosfera oscura che caratterizza la sceneggiatura.
Tutto ciò potrebbe bastare a disturbare il pubblico, ma l’autrice non si limita a sviscerare le implicazioni di un futuro virtuale (microchip, libertà individuale, privacy, disumanizzazione, ecc.); piuttosto infierisce, inspessendo la sceneggiatura con un substrato ancora più oscuro. Smith scava al suo interno e affonda la lama, scuotendo lo spettatore con un’evoluzione agghiacciante.
Quando gli sforzi di Owen nell’aiutare la moglie a disintossicarsi iniziano a funzionare, ecco che una rivolta sociale ne ostacola la guarigione. La macchina ha scatenato una crisi, è capace di cose terribili. Con l’intento di sedare la sommossa il governo decide di scollegare, resettare e riavviare tutto. Black box è nuovamente connesso, pulsante. Polly sarà accecata dal furore.
«Vuoi vivere per sempre?», risuona la voce del dispositivo, mentre sul fondale luminoso tuonano sfumature tenebrose.
Insinuandoci nella vita comune dei due protagonisti (fatta di aspettative, litigi e tenerezze), contempliamo questo futuro distopico non troppo lontano: comprendiamo la tanto desiderata beatitudine di Polly, eppure avvertiamo la solitudine più profonda.
Caterina Matera
12 novembre 2021
Informazioni
di Stef Smith
regia Maurizio Mario Pepe
con Liliana Fiorelli e Edoardo Purgatori
voce Black Box Patrizia Salmoiraghi
supervisione movimento Jacqueline Bulnes
scenografo Nicola Civinini
sound design Lorenzo Benassi
foto di scena Manuela Giusto
traduzione Maurizio Mario Pepe
produzione: Khora Teatro / La Forma dell’Acqua