Recensione dello spettacolo teatrale L’inizio del Buio, debutto nazionale presso il Teatro Comunale di Todi, sabato 28 agosto nell’ambito del Todi Festival.
Si è aperto il sipario, lo scorso sabato 28 agosto, di fronte alla platea nella cornice dell’elegante e signorile Teatro Comunale di Todi. Come da locandina, “l’Inizio del Buio”, riduzione dell’omonimo testo di Walter Veltroni (2011), che rievoca le tragiche vicende di Alfredino Rampi e Roberto Peci, ha dato il via al Festival, inaugurando un’edizione ricca di appuntamenti centrati sull’attualità.
Un debutto in prima nazionale, proposto dal regista Peppino Mazzotta, con un riadattamento “delicato e semplice”, interpretato con prudente veemenza da Sara Valerio e Giancarlo Fares.
A quarant’anni esatti dai due accadimenti, lo spettacolo ha inghiottito nel buio un pubblico preparato e consapevole che quella sera avrebbe ripercorso il dramma di due vicende che hanno scosso gli animi degli italiani nell’estate del 1981.
È il 10 giugno. A Vermicino, un bambino romano di sei anni, Alfredino Rampi, cade all’interno di un pozzo artesiano di soli venti centimetri, nel quale rimarrà imprigionato fino alla infausta scomparsa.
A San Benedetto del Tronto, lo stesso giorno, un antennista di nome Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, viene rapito dalle Brigate Rosse, e infine, qualche mese dopo, assassinato.
Un buio diverso, il loro, ma ugualmente senza speranza; entrambi impotenti di fronte a loro stessi e al loro destino, sono costretti alla mercé degli altri: due storie parallele, che si intrecciano oltre la coincidenza.
Ma cosa le accomuna davvero?
Nella sala di teatro cala un ossequioso silenzio, ancora prima dell’inizio della rappresentazione. In scena, dall’alto del soffitto scendono, appesi in maniera difforme, dieci lampadari, diversi per colore, disegno e dimensione. Sono spenti.
Una scenografia essenziale, cauta, complementare e rispettosa del potere della narrazione, lascia allo spettatore la possibilità di essere direttamente trasportato dalle parole dei due interpreti giù, sempre più giù, nel buio vissuto da Alfredino Rampi e in quello, diverso eppure ugualmente senza ritorno di Roberto Peci.
Solamente due lampade, più piccole e uguali, rimangono accese durante tutta la performance: una illumina il volto di Sara, che darà voce ad Alfredino, un’altra è ad occhio di bue su Giancarlo, Roberto.
Le loro voci si alternano come le due storie, intrecciandosi e sovrapponendosi, con un inizio quasi a rallentatore che serve ad inquadrare le vicende e che crea, con questa ritmica alternanza e con l’uso ragionato delle tonalità della voce, un quasi impercettibile senso di angoscia. Fino a raggiungere, a metà dello spettacolo, un climax che arriva dritto alla schiena, un brivido di terrore e di dolore. Sara e Giancarlo riescono a ricreare nella perfezione i momenti più concitati: le urla dei soccorritori di Alfredino, la folla che si accalca attorno al pozzo, l’arrivo del Presidente della Repubblica Pertini, si contrappongono alla voce ingenua e sempre più flebile di un bambino spaurito che invoca, qui con la voce prestata da Sara: “mamma”.
E si è, di nuovo, tutti lì. Tutti uniti, a “guardare la realtà succedere” di fronte alla televisione!
Eccola, posizionata al centro del proscenio, ancora più avanti e centrale rispetto ai due fari accesi, la vera protagonista della rappresentazione inscenata da Mazzotta: oltre la verità c’è lo spettacolo, oltre la storia c’è la televisione. Un televisore anni Ottanta di colore rosso è collocato dritto davanti al pubblico, “di schiena” lo affronta, con la sua immobilità e la sua insensibilità, imperturbabile narratore.
Per la prima volta, ventiquattrore su ventiquattro, senza soluzione di continuità, quel 10 giugno del 1981 e per tre giorni consecutivi, il televisore ha ingurgitato la verità, la tragicità di un momento reale e l’ha restituita, fari accesi, al pubblico a casa, trasfigurandola e trasportandola in una dimensione che trascende la storia in sé: dalla realtà al reality.
Ecco, quindi, cosa accomuna Alfredino e Roberto, ecco il parallelismo, ecco il vero messaggio che l’”Inizio del Buio” trasferisce: il potere evocativo dell’immagine, che rende tangibile, palpabile il dolore, che trattiene il pubblico attonito e incollato allo schermo, oltre ogni possibile senso del pudore.
Ecco cos’è il buio, oltre il pozzo e oltre la prigionia nella quale è stato costretto l’operaio italiano: è il microfono calato all’interno del pozzo che, usato dai soccorritori con lo scopo di mantenere un contatto con il bambino, si trasforma nell’eco di un lamento che entra nelle case, che bussa alle porte, annullando di fatto persino la distanza tra la dimensione pubblica e il momento della morte; ma è anche il video della condanna a morte di Roberto Peci, girato dalle Brigate Rosse come monito, e precursore, come si legge anche nel libro di Veltroni, di uno stravolgimento nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione che è antesignano dell’uso delle telecamere dei terroristi di Al Qaeda.
L’Inizio del Buio non è, quindi, solo un racconto di due fatti di cronaca fermi nel tempo, ma è la denuncia di un mondo che, a partire da allora, ha capovolto gli equilibri del giornalismo e della comunicazione tout court, aprendo le porte a una rincorsa spasmodica dell’osceno, alla speculazione della sofferenza, alla TV del dolore verso la conquista a tutti i costi dell’audience e soggiogata dalla battaglia per lo share televisivo. Un’ingerenza sempre più capillare del pubblico nel privato, dove non esistono più delimitazioni e demarcazioni, dove l'etica e la deontologia di un sano giornalismo vengono calpestate e surclassate dalla bulimia di un’informazione sempre più invadente, invasiva, trasversale e di superficie.
Un’intuizione, questa, tuttavia, non immediata, soprattutto per un pubblico più giovane, che faticherebbe, forse, a cogliere, al di là della trama, uno spunto di riflessione in questo senso.
Eppure, è proprio a loro che l'arte deve essere rivolta, offrendogli nuovi punti di vista e strumenti di comprensione e di cattura del mondo.
Nell’epoca dell’indigestione pubblicitaria, della supremazia dei social network e dell’accessibilità indiscriminata a qualsivoglia informazione, soffermarsi a riflettere è l'unico antidoto per acquisire uno spirito critico in grado di andare oltre l'accattivante richiamo dell'immagine e cogliere la verità oltre la funzione. E il teatro, con un linguaggio semplice e all’avanguardia, deve porsi questo compito, deve avere questa ambizione.
Francesca Sposaro
2 settembre 2021