Recensione dello spettacolo L’esperimento di e con Monica Nappo, andato in scena al Teatro Sala Umberto il 29 luglio 2021
Una sedia che rimanda ad uno studio di psicoterapia o di counseling, non è ben chiaro, accanto una pentola in cui c’è qualcosa che si sta riscaldando ma di cui non siamo a conoscenza. Tra questi due elementi che assurgono ai due poli della scenografia, con un disegno luci che si alterna tra l’uno e l’altro, si muove la protagonista del nostro monologo. Monica Nappo, nelle vesti di una donna che sta elaborando il vissuto inerente il suo divorzio, rispetto alla sedia messa in primo piano dalle luci di scena, a tratti è seduta, a tratti è in piedi dalla parte di chi ascolta. Durante la pièce infatti ci svelerà il suo doppio ruolo di couselor (una sorta di terapeuta pe terapie brevi) e nel contempo di persona che ha urgenza di essere ascoltata, che s’interroga sul suo rapporto di coppia tentando di riannodare i fili della sua vita. Nel monologo in scena entriamo a contatto con la storia di una donna, una storia che ci narra di un subdolo e impercettibile distacco della persona che si ama, una storia che inevitabilmente attraverserà la solitudine, in cui ciascuno di noi potrebbe identificarsi.
La drammaturgia della stessa Nappo scandaglia i momenti di apparente normalità del matrimonio come passeggiare insieme, fare la lavatrice, in cui inizia a manifestarsi un fastidio, un malessere da parte del partner. Inizialmente sembravano inezie come il conflitto sulla scelta del detersivo per i panni, ma in realtà quel fastidio sottovalutato, diventerà vera e propria insofferenza e rifiuto per la persona un tempo amata. In questo caso, dietro l’opzione del detersivo, si nascondono due visioni del mondo agli antipodi: una ecologista, l’altra consumistica, quindi non si trattava di banalità. S’innesca quindi, gradualmente, un processo inarrestabile che trascina la relazione alla deriva e il dubbio è se questa dinamica sia, forse, universale consumando il rapporto nell’abitudine che si trasforma in dipendenza. Anche qui l’attrice/autrice si pone degli interrogativi sul senso dell’abitudine e della dipendenza: è un elemento così negativo l’abitudine? Ma se poi non possiamo più farne a meno? Nonostante tutto, però, sembra che il colpo di grazia alla relazione sia stato dato dal disaccordo sull’avere i figli: lui voleva, lei no. Riguardo a tale posizione, la protagonista si guarda dentro con lucidità senza farsi sconti e alla fine, ammette che forse dietro la sua scelta, si cela un disagio…Nel contempo, scopriamo lentamente cosa bolle in pentola: una rana. I significati del vissuto narrato si possono esprimere simbolicamente nell’esperimento della rana bollita di Chomsky che avviene in scena durante il monologo: una rana all’interno di una pentola con acqua fredda che lentamente ma costantemente si scalda, muore perché si adatta alla temperatura e nel momento in cui l’acqua bolle, non ha più la forza di saltare fuori. Per salvarsi, non bisogna quindi adattarsi, ma saltare fuori dalla condizione di pericolo prima che sia troppo tardi.
Interessante la scelta registica di Elena Gigliotti d’interrompere a tratti lo scorrere dei flashback della protagonista, per tornare indietro nel racconto e ritrattarne una parte in base ad un altro punto di vista che sembra esterno, ma che invece è sempre interno al personaggio: la risultante è il confronto tra più prospettive, in cui la verità non è sempre unica o non sta solo da una parte. Ben caratterizzato e ben interpretato da Monica Nappo il suo ruolo, che si è destreggiata bene in quasi un’ora di monologo, declinando con la sua recitazione tutte le sfumature della personalità di una donna che vive un percorso di rinascita dopo l’abbandono.
Mena Zarrelli
3 agosto 2021