Recensione dello spettacolo Pinocchio, di Franco Scaldati. Regia di Livia Gionfrida. In scena al Palazzo della cultura di Catania dall’8 al 18 luglio 2021
Esistono parole per comunicare, ossequiose di leggi logiche e semantiche che ci permettono di condividere ed esprimere un linguaggio comune. C’è poi una tipologia di linguaggio che, pur usufruendo della medesima fonetica, ne riplasma il costrutto interno seguendo traiettorie non più condivise ma totalmente personali, dove è riconoscibile il suono ma non la sua intenzione. Nella scrittura di Franco Scaldati, regista, poeta, drammaturgo e attore palermitano, la linearità del “ verbo” diviene quasi intralcio alla natura indomita di questo, costituita da un selvaggio ed istintivo libero fluire dialettale alternato ad improvvise impuntate e virate. Qui la parola fugge, anzi scappa e si lascia affannosamente rincorrere da certe regole e aspettative di prevedibilità delle quali si sente il rauco fiatone. Qui la parola si accomoda dove le pare e senza permesso, per trovare da sola la sua collocazione all’interno di un foglio bianco che può rimanere tale oppure leggermente tracciato da parole e frasi che si cercano senza trovarsi. Su questa scia, il Pinocchio di Scaldati si lascia scorgere e raggiungere solo con i sensi, lasciando che sia il riverbero delle parole e il loro carattere evocativo, e non il loro significato, a colpire lo stomaco ora con una piacevole vibrazione, ora con un pugno. Il Pinocchio collodiano, tradotto in palermitano dallo stesso Scaldati, è una linea che spesso si spezza per divenire altro, per seguire una suggestione o una ritmica che sembra nata in quel momento, lasciando che sia il profumo di quell’emozione a farsi figura. Analogamente, la vibrazione sottostante ai fonemi riflette l’abolizione della regola strutturale per consentire che siano i suoni ad evocare immagini e non la parola a tradurle.
Lo spettacolo, quindi, coinvolge ogni singolo spettatore il quale diviene inevitabilmente co - autore ed interprete di un insieme armonioso di suggestioni che traduce assecondando l’unicità della propria risonanza emotiva. La regista Livia Gionfrida ben intercetta l’essenza di Scaldati, allestendo uno spettacolo vibrante di energia e suggestioni, sollevandolo dal suolo e trasformandolo in elemento onirico. Qui i protagonisti sono fatti di buio e da questo si materializzano divenendo poi terribilmente terreni, beffardi e meschini, come nel passaggio inedito, curato dalla stessa regista, inerente l’aggressione a Geppetto. La regista non cerca di afferrare e fermare con le mani un universo carico di suoni, colori ed energia, più grande di lei e di noi: la Gionfrida, invece, soffia su quelle vele lasciando sapientemente che siano gli elementi stessi ad autoregolarsi, inseguendosi, sostituendosi e scontrandosi, sconfinando a volte nella rottura della quarta parete, a testimonianza dell’indomabilità dell’energia. La parola viene destrutturata, frammentata, emanata non per incontrare l’altro ma per differenziarsi da questo, divenendo un suono tra i suoni, suggestione tra emozioni. E, dove questa si interrompe, inizia il corpo dei personaggi e il loro impetuoso dinamismo per continuare un discorso altro, laddove il parlato non aveva forse nemmeno intenzione di arrivare. Nonostante in alcuni passaggi sia avvertibile un’insistenza eccessiva nell’enfatizzare le peculiarità narrative di Scaldati, rendendo oltremodo indistricabili alcune sequenze, decisamente riuscito rimane l’intervento registico. Questo ha efficacemente restituito la vibrazione sottostante alla scrittura dell’artista palermitano, cogliendone l’anima, come testimoniano gli inserti inediti che, pur appartenendo alla penna della regista, si integrano armoniosamente con il clima narrativo. Puntualmente evidenziato inoltre, il dialogo alla pari, che spesso si tramuta in relazione, tra tutti gli elementi del creato. In Franco Scaldati, infatti, ogni supremazia aprioristica viene abolita per favorire una relazione che si muove per linee orizzontali avente come elemento dominante la coralità della natura.
Gli attori, perfettamente a loro agio nelle rispettive perfomance, dove i silenzi si alternano agli acuti e il movimento alla staticità, colgono con precisione e trasporto lo spirito quasi bambinesco sottostante la drammaturgia. Essi, infatti, rimandano la sensazione di non “recitare” bensì di proporre la parte più fanciullesca del loro vero essere. La scenografia e i costumi curati dalla stessa Gionfrida sostengono quel senso di non finito, e forse di nemmeno mai iniziato, contribuendo a restituire la percezione di intangibilità alla pièce che ben soddisfa i canoni stilistici di Scaldati. Questi fu amante del frammento, di quell’incompiuto quasi michelangiolesco dove la definizione della figura si interrompe proprio nell’attimo in cui emerge e si differenzia dalla pietra. Le luci (Gaetano La Mela) spesso calde ed intime, anch’esse corporee, ben dialogano con l’oscurità del fondo del palcoscenico, da dove tutto può emergere, co - creando quell’atmosfera evaporata che si colloca tra cielo e terra.
La ricerca, quindi, di qualcosa di più di semplici echi del Pinocchio collodiano rischierebbe di farsi sfuggire tra le dita il nucleo emotivo che lo spettacolo ha restituito, dove, mai come questa volta, il tutto è più della somma delle singole parti.
Simone Marcari
12 luglio 2021
Informazioni
Regia, adattamento, scene e costumi: Livia Gionfrida,
Con:
Aurora Quattrocchi, Alessandra Fazzino,
Manuela Ventura, Cosimo Coltraro,
Serena Barone, Domenico Ciaramitaro
Assistente alla regia: Giulia Aiazzi
Assistente scenografo e costumista: Vincenzo La Mendola
Luci: Gaetano La Mela
Audio: Giuseppe Alì
Produzione: Teatro Stabile di Catania
in collaborazione con Teatro Metropopolare