Recensione dello spettacolo La mia esistenza d’acquario andato in scena in diretta su Zoom dal 23 settembre al 3 ottobre 2020
La mia esistenza d’acquario è un racconto scritto da Pier Maria Rosso di San Secondo nel 1919. Ma è anche una sfida per Lydia Giordano che, nell’era del web e dello streaming, sceglie un testo tutt’altro che immediato per farne un’opera teatrale, femminile e digitale al cento per cento.
Diciassette monologhi che raccontano la stessa storia, o meglio, capitoli diversi di una stessa storia; la storia di Lauretta e del suo rapporto di amore e odio verso la madre. Diciassette attrici che, in diciassette stanze diverse, senza mai vedersi o sentirsi, danno voce ai sentimenti e ai pensieri contrastanti di uno stesso personaggio. Tutte per una e ognuna per sé: ciascuna protagonista del proprio spettacolo nello spettacolo, con tanto di titolo, scenografia e note di regia differenti.
Ad aprire la serie è Sara Firrarello, nei panni di una figlia che scopre di aver vissuto sempre all’ombra dell’altra, celebre soprano e madre assente. Fredda e incolore, come un vegetale in cui non può scorrere sangue, si muove da una parte all’altra dello schermo alla ricerca di sé stessa. Ci sembra di guardare dentro a un sogno: Lauretta indossa una sottoveste e, stordita e confusa, quasi danza in uno scenario lacustre, che se, da un lato, rievoca il paragone con il mondo della natura tanto caro a Rosso, dall’altro, accentua la dimensione onirica dei pensieri e del racconto.
Dai toni freddi del primo monologo si passa ai colori accesi e caldi del secondo: tocca a Viola Graziosi sbocciare letteralmente per raccontare quel rapporto complicato con la madre. Una diva applaudita a teatro e poco presente a casa; una fata o forse una dea ai suoi occhi; di sicuro, una creatura soprannaturale da ammirare e temere insieme. Seduta, con lo sguardo fisso in camera e con addosso il corpetto delle attrici di una volta, Viola racconta il desiderio dell’attesa, la gioia della condivisione e la nostalgia del distacco di ogni breve incontro con l’altra.
Il racconto si scioglie in un vero coup de théâtre: l’attrice si cambia d’abito, anzi si spoglia (l’abito è dipinto sul corpo), per andare a teatro.
Si torna ai toni bluastri delle illustrazioni della Giordano che, come un sipario, si aprono per introdurre il canto di Roberta Lidia De Stefano. Per la prima volta l’attrice dà voce a entrambe: Emma, l’altra, il soprano, e Lauretta, l’ombra, la spettatrice. In una scena che quasi non si muove, la narrazione fa dei balzi in avanti: scopriamo di un uomo dal volto angosciato, del matrimonio della madre con un certo Olgiati e del trasferimento di Lauretta in collegio.
Ma è solo con Caterina Luciani, distesa a terra, immobile e impassibile che sappiamo dell’uccisione della madre. Come una farfalla che torna bruco, Lauretta torna a essere niente, proprio come l’altra che adesso non esiste più. Può solo continuare la vita della madre nella villa che ha ereditato dal signor Olgiati.
La scena bianca, di una luce quasi accecante, segna un cambio netto nella narrazione e nella vita della protagonista.
Ci vuole tempo per elaborare il lutto e per capire che una figura eterea come quella della madre sia esistita e scomparsa per sempre. Il tempo di sentirne il profumo nelle tende, nel tappeto, nel letto e per tutta la casa. Il tempo di familiarizzare con i suoi effetti personali, come lo spillone, il primo oggetto a comparire in scena e sullo schermo tra le mani di Barbara Giordano.
Le parole di Rosso insospettiscono e incuriosiscono il pubblico, come in un thriller. Chi sono i tre uomini di cui parla Lauretta, questa volta interpretata da Deniz Ozdogan? E cosa sanno che a lei sfugge? Leggiamo il terrore nei suoi occhi, ne percepiamo l’insofferenza e il disagio, perfettamente racchiusi nel poligono verde che la imprigiona, come quella villa e come la vita dell’altra.
Li ritroviamo nel bosco, Aspro Aspri, Gabriele Michiewski e il vecchio scultore Murì, tutti e tre desiderosi di ristabilire un contatto, anche fisico, con l’altra, con la donna morta. Ma tra quelle querce disegnate dalla Giordano, si muove una Manuela Ventura inconsapevole, spaventata e affascinata dalle sensazioni contrastanti che prova. Sembra una ninfa e come una ninfa sinuosa e curiosa si muove nella stanza. Per la prima volta la regista ci svela i confini di uno spazio fisico che non è il teatro. Oltre gli alberi riconosciamo una camera.
E per la prima volta dalla morte della madre, Lauretta si illude di poter iniziare una vita sua, di conoscere l’amore e di essere felice grazie ad Aspri.
Sara Lazzaro ne racconta le pulsioni e i sentimenti nuovi che le bruciano in petto. La sua, però, è solo un’illusione, destinata a spegnersi con le luci dell’alba.
La dimensione onirica della notte lascia il posto alle illustrazioni e alle metafore floreali. Silvia Valsesia quasi si confonde con i fiori e la natura che la circondano, ma la bellezza dei colori e dei profumi della valle si contrappone alla tristezza dei personaggi. Scopriamo solo ora dell’amore di Aspri per Emma e quasi sentiamo i desideri di Lauretta svanire come rugiada sull’erba.
Egle Doria sembra una maschera greca. Immobile e con lo sguardo fisso nel vuoto, racconta il suo dolore per una felicità che continua a sfuggirle. Ormai sa, e Michiewski gliel’ha confermato: Aspro Aspri ama sua madre e ciò che vede in lei di sua madre. Come lo stesso Michiewski del resto.
L’altra è una donna, in carne e ossa, ed è esistita veramente. Il suo ricordo non evapora col tempo e la sua presenza non sfuma, nonostante la morte, nonostante l’espediente del velo sul viso di Lisa Galantini che tenta di offuscarne i contorni. È a questo punto della storia che si aggiungono nuovi dettagli: una lettera indirizzata a Emma dal suo amante. La lettera che il signor Olgiati ha letto prima di compiere il delitto. È a questo punto della storia che Lauretta decide di precipitarsi da Michiewski e chiedergli spiegazioni.
Nei monologhi a seguire la vediamo assetata di verità (Isabella Macchi) e in preda all’angoscia (Alice Spisa) ripercorrere le orme della madre nel tentativo di ricostruire la storia. Decide addirittura di indossare una maschera (Irene Timpanaro) e di vivere come se fosse lei quella scomparsa. Si fa persino accompagnare (Aurora Peres) alla villa dove la madre incontrava l’amante. Senza mai trovare pace e soprattutto amore. In lei (Mila Vanzini) nasce un desiderio di vendetta, la voglia di liberarsi per sempre da quella prigionia. E la voglia cresce quando scopre che Olgiati, l’assassino, è uscito dal carcere ed è a casa.
Si lava, indossa una veste di seta e una collana di perle, poi, prende lo spillone e torna dall’uomo che aveva visto solo una volta prima di allora, quel lontano giorno a teatro. Per liberarsi di una vita vissuta come in cella, sempre all’ombra di qualcun altro.
In questi ultimi sette minuti di scena Roberta Caronia ci trascina dentro il suo acquario: attraverso i suoi occhi e la sua voce vediamo Lauretta e Olgiati nella stessa stanza, paradossalmente accomunati dallo stesso destino di vittime e carnefici. E in effetti come lei stessa dice, hanno bisogno l’uno dell’altra; lui del suo perdono, lei di una vita senza ombre. Una vita possibile solo con l’uccisione di Olgiati. “Io godetti allora, e mi disfeci come medusa morta in un acquario”.
Il disegno di Lydia Giordano si conclude così, con una serie di valide performance, ricche di sfumature e sottigliezze che restituiscono un progetto digitale, ma soprattutto live, ben riuscito.
L’idea di realizzare diciassette micro-monologhi estremamente difformi, ma mai discordanti, si sposa perfettamente con le caratteristiche della piattaforma Zoom, nonostante l’ormai nota “zoom fatigue”. Stupiscono, in senso buono, i giochi di luce (chi l’avrebbe mai detto potessero funzionare così bene anche in streaming) e le scenografie illustrate, che per una volta sono in primo piano rispetto alle attrici stesse.
L’intero lavoro rincuora gli appassionati di teatro che credono nel rinnovamento dei mezzi e delle espressioni, perché l’opera di Lydia Giordano e delle sue interpreti dimostra come il teatro a distanza sia una risorsa concreta ai tempi del distanziamento sociale.
Certo è che in mancanza di estrema perizia tutto questo non sarebbe stato possibile.
Concetta Prencipe
10 ottobre 2020