Recensione dello spettacolo #LOSTUPRODILUCREZIA in scena al Globe Theatre dal 29 settembre al 1 ottobre 2020
Giovanna Reggiani è morta in ospedale il 31 ottobre 2007, appena ventiquattrore dopo l’aggressione. Oggi, a tredici anni dalla scomparsa, la sua storia rivive nel mito di Lucrezia, nei versi di Shakespeare e sul palcoscenico del Globe.
È nello spazio che precede il teatro e lo spettacolo vero e proprio che scopriamo la sua storia e quella di altre donne vittime di violenza e abuso come lei. In realtà sono storie note: pagine e pagine di cronaca nera e giudiziaria ce le hanno raccontate; ma, per un paio di notti, rivivono negli occhi, nelle fattezze e nelle voci delle sette donne scelte da Marco Carniti per #LOSTUPRODILUCREZIA.
Un titolo che è un hashtag. Un hashtag che è una denuncia social(e), che unisce in un coro univoco le donne di ogni epoca e nazionalità. E in effetti, come lo stesso regista spiega poco prima di andare in scena, non è una casualità che le attrici selezionate per questo progetto laboratoriale siano di nazionalità diversa. Sette interpreti, più che semplici attrici, ciascuna con una formazione artistica differente e poliedrica, che in un tribunale immaginario raccontano, denunciano e chiedono giustizia per Lucrezia e, simbolicamente, per tutte le donne che Lucrezia rappresenta.
La macro storia, dunque, è quella che racconta Tito Livio; è la storia del sacrificio di una donna casta e virtuosa che per non sopportare la vergogna e il dolore dello stupro si uccide e chiede vendetta. La vendetta è servita, Tarquinio il Superbo e suo figlio, Sesto Tarquinio, autore della violenza, sono cacciati da Roma; l’ultimo re di Roma cade e inizia una nuova era, l’era della Res Pubblica e del Senato romano.
A un livello più profondo, però, di storie ce ne sono molte altre e non sono solo quelle delle donne i cui nomi, accompagnati da una croce e dall’anno della morte, sono stampati sulle mascherine anti covid che le interpreti indossano prima e in alcuni momenti chiave dello spettacolo.
La violenza sessuale, come ricorda Shakespeare e anche Carniti, è la storia più antica e moderna che si possa raccontare. Non conosce confini e non conosce tempo, e prima di essere atto, è desiderio che, come il più mortale dei virus, dilaga, si fa incontenibile e possiede. Senza lasciare altro che un senso di vuoto e di perdita. Disonore e vergogna.
La denuncia di questa forma di contagio dall’alta carica virale che si impossessa di Tarquinio e del sesso maschile fino a fargli perdere il senno, fino a fargli dimenticare il valore dell’amicizia, come quella che lo lega a Collatino, sposo di Lucrezia, è solo uno dei riferimenti al periodo storico che stiamo vivendo. Forse il più esplicito, insieme alle mascherine. Non tutti sanno infatti che quando il Bardo scrisse il poema, Londra viveva un periodo di lockdown per via della peste. I temi dell’opera, la violenza maschile sulle donne e la sessualità femminile, vollero gettare un po’ di luce su un periodo storico fermo e buio. Così come oggi il coro di donne vestite a lutto, rivolgendosi a una platea testimone e giudice nello stesso processo, vuole invitare alla riflessione e all’azione.
La platea è a tutti gli effetti parte viva dello spettacolo: come nella tragedia greca è a lei che il coro di donne racconta la vicenda di Lucrezia; con lei piange lo stupro e la morte della fedele sposa; è lei che supplica e invoca perché giustizia sia fatta. E il coinvolgimento del pubblico è così forte e sentito che a qualcuno viene da rispondere. Merito di un adattamento del testo e di scelte registiche che alimentano l’attenzione e la tensione emotiva del pubblico.
La scenografia è semplicissima: sei pugnali pendono dal soffitto; il fondale rosso sangue e le sedie dello stesso colore contrastano con i vestiti luttuosi del coro. Al centro del palcoscenico spicca l’altare del sacrificio, il letto nuziale su cui si consuma la violenza, bianco come le lenzuola, come le vesti di Lucrezia e la sua purezza. Il resto sono le scene di caravaggesca memoria, che cristallizzano i momenti di massimo pathos; le voci portentose di Sarah Biacchi e Noemi Smorra; l’intensità di Jun Ichikawa, che fa commuovere anche a fine spettacolo con il suo “viva il teatro”; e la forza “bruta” di Antonella Civale nei panni di Sesto Tarquinio. Una scelta premiante, quella di far interpretare proprio a lei, a una donna, un simile personaggio. Una scelta, la cui potenza semantica si amplifica ogni volta che l’attrice si spoglia dei panni di Tarquinio per parlarne in terza persona. In un andirivieni che mostra la doppia faccia del dramma: quando la violenza è conclusa non ci sono vincitori. Solo vinti.
Concetta Prencipe
4 ottobre 2020