Recensione dello spettacolo Andrea Chenier andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma dal 21 aprile al 2 maggio 2017
Lunghissimi e numerosi applausi hanno accompagnato la chiusura delle repliche di Andrea Chenier al Teatro dell’Opera, dramma composto da Umberto Giordano su libretto di Luigi Illica. La storia di questo melodramma è poco conosciuta rispetto a opere come Tosca o Turandot; siamo in Francia tra il 1789 e il 1794, e la trama si snoda su un doppio binario: da una parte la classica e struggente tipica storia d’amore dell’opera lirica, in questo caso tra il poeta Andrea Chenier e la bella Maddalena; dall’altra è presente il tema della rivoluzione francese e del Regime del Terrore, che inevitabilmente porterà alla morte dei due amanti.
La regia è stata affidata a Marco Bellocchio, famoso regista cinematografico che ha diretto giovani e promettenti cantanti lirici. Nel cast hanno spiccato, come dimostrato anche dal pubblico con applausi a scena aperta: Gregory Kunde (Andrea Chenier), Roberto Frontali (Gérard), Maria José Siri (Maddalena) e Elena Zilio (Madelon). Sia i personaggi principali, sia il coro, sia l’orchestra del teatro, sono stati guidati dall’ottima direzione del maestro Pietro Rizzo.
Oltre all’ottimo lavoro da un punto di vista musicale, è stato fatto un lavoro eccezionale anche dal punto di vista visivo dell’opera, con le scenografie e le luci di Gianni Carluccio e i costumi di Daria Cavelli.
Durante lo scorrere della vicenda, sia le scene che i costumi vanno sempre di più ad “impoverirsi”, come metafora del passaggio di potere dalla nobiltà al popolo: nel primo atto ci troviamo nel castello della Signoria dei Conti di Coigny in cui viene rappresentata la nobiltà al suo massimo splendore, con eleganti arredi e grandi vetrate che danno su un giardino; in questo caso i costumi sono elegantissimi ed accompagnati dalle tipiche parrucche bianche. Nel secondo atto, tutto cambia e siamo a Parigi cinque anni dopo, in pieno regime del terrore e la nobiltà è caduta, per cui in questa scena troviamo i semplici costumi del popolo e le casacche dei soldati francesi, sullo sfondo una scenografia dipinta con le case. Il terzo atto si svolge all’interno del tribunale rivoluzionario e conseguentemente la scena è altrettanto austera e semplice: un freddo muro di pietra e una gradinata metallica e sullo sfondo, l’immagine di Robespierre assieme a quella degli altri esponenti del regime. L’ultimo atto è il più semplice di tutti, la prigione di San Lazare, dove viene rinchiuso Chenier in attesa dell’esecuzione: è presente solamente il muro dell’atto precedente.
Bellocchio come già detto ha fatto un ottimo lavoro sotto ogni aspetto, l’unico appunto è che forse sarebbe stato più conveniente rispettare la divisione degli atti, aumentando così il numero degli intervalli, poichè il pubblico (soprattutto i turisti stranieri) durante i dieci minuti per permettere il cambio scena, con le luci soffuse in sala, si alzava per uscire.
Tranne per questo piccolo particolare il pubblico ha avuto il privilegio di assistere ad un grande spettacolo, molto fedele alle didascalie del libretto e quindi si ha avuto il trionfo della classicità.
Gabriele Isetto
4 maggio 2017