Recensione dello spettacolo Orson Welles’ Roast, in scena al teatro Ambra Jovinelli dal 30 ottobre al 10 novembre 2019
Giuseppe Battiston è bravo a calarsi nei panni del genio Welles ma rimane un po’ troppo ingabbiato nel personaggio da non far trasparire al meglio il contenuto piuttosto che il contenitore
Può essere questo il caso in cui fumo e arrosto insieme si sposano alla perfezione per dare alla luce una portata succulenta, come quella descritta inizialmente da Battiston dal palco dell’Ambra Jovinelli?
Effettivamente in Orson Welles' Roast il materiale messo su un piatto d’argento è di quelli che potrebbero far venire l’acquolina in bocca a un pubblico giunto numeroso: c’è l’abilità di Giuseppe Battiston che può liberare tutta la sua fisicità imponendola sul palco con l’immedesimazione in quel gigante che è stato Orson Welles. C’è il ricordo e il racconto di Orson Welles stesso, un grande del mondo dello spettacolo che con il suo ego riempiva teatri e cinema: il kolossal era prima lui e poi il film che ne derivava. C’è l’idea: quella di raccontare un personaggio dalle mille sfaccettature e dall’enorme genialità, già moderno all’epoca dei classici, ancora nuovo e originale nella decadente Hollywood degli anni ’50. Insomma gli ingredienti c’erano tutti per cuocere questo arrosto.
Il testo, letteralmente “l’arrosto di Orson Welles”, è tratto da numerose interviste rilasciate dal regista stesso e racconta alcuni aneddoti della vita del grande cineasta statunitense, attraverso alcune iniziali riflessioni sul cibo, per passare poi alla sua meno famosa carriera teatrale, alla fortunata trasmissione radiofonica e, infine, al suo musical su Cole Porter.
Orson Welles vuole essere “roasted”, ossia messo a nudo e arrostito davanti al suo pubblico. È Giuseppe Battiston con un marcato accento statunitense a fare da cicerone all’interno della vita dell’iconico regista passando per gli episodi che ne hanno segnato l’ascesa.
In sostanza però, dietro al fumo alzato dal tocco di magia che Battiston prova a dare, lo spettacolo dove vuole andare a parare? Per carità la performance è eccellente, d’altronde quale attore di cinema quale lui è riesce ad occupare alla perfezione il palco, ad animare i suoi silenzi e a rendere l’immagine dell’american style anni ’50 e ’60 di un attore icona dal carattere fumantino e mai quieto. Ossequioso alle regole del monologo, Battiston è sicuramente bravo a porsi domande e a regalare momenti di luce sulla vita del suo personaggio passando per i fatti più salienti della sua vita pubblica e anche indugiando su qualche riflessione sull’intima natura della star.
Il tutto però si esaurisce troppo presto: in un’ora a cercar spunti e osservazioni si ha sempre come l’impressione che in realtà lo spettacolo non sia mai iniziato, come se mancasse la scintilla che accenda la fiamma su cui cuocere quanto di buono messo in tavola. Perché sì, in cucina c’è del buon materiale, ma la cottura, lenta, tarda quantomeno ad arrostire il cuore, magari lambendo i lati dell’arrosto.
Il tutto si trasforma, così, in esercizio attoriale, di cui, ripetiamo, Battiston fa bella mostra, come a dire: sì, so farlo Orson Welles. Anche gli spunti umoristici e/o comici non rendono giustizia al Battiston che conosciamo: mancano dei momenti puramente ironici e anche quei piccoli sprazzi vengono quantomeno annacquati con un liquore un po’ dozzinale, nonostante la bottiglia che lo contenga sia di marca. Apprezzabile il suo mettersi in mostra nei panni di un gigante sacro e anche quel rendere al meglio la narrazione: Welles faceva della comunicazione e del racconto a voce il suo punto di forza, basti pensare a come riuscì nel giro di una trasmissione radiofonica a far uscire fuori di testa un intera cittadina americana. Ma Welles era anche altro: era innovazione. Basti vedere il trailer del suo film più famoso “Citizen Kane”, Quarto Potere e vi renderete conto di quanto avanti fosse la sua visione, per non parlare del girato puro della pellicola. Ecco, manca, forse, a questo spettacolo di Battison quella miccia di originalità che era parte dello spirito di Welles.
Applaudiamo senz’altro l’idea e il Battiston/Welles di per sé (da sottolineare il modo in cui modula la voce e il tono nel ripetere una singola parola più volte, quasi, improvvisamente alieno dalla realtà, come stesse tenendo in mano un oggetto ripensando alla sua “Rosebud”) ma riteniamo che manchi al tutto quell’elemento che fa di questo spettacolo un arrosto ben cotto e che, dopo l’acquolina, soddisfi appieno il palato e lo stomaco. Di certo un’opera che ha scelto bene il suo target di pubblico, questo va detto, ma che probabilmente, poteva tranquillamente anche spostare il passo un po’ più in là rispetto ai suoi limiti e guardare oltre, aldilà del burrone, proprio come faceva sempre lo scontroso, vecchio, amabile, egocentrico e buon Orson Welles.
Federico Cirillo
5 novembre 2019