“il miglior modo di asciugarsi sarebbe di fare una corsa scompigliata. — Che è la corsa scompigliata? — domandò Alice. Non le premeva molto di saperlo, ma il Dronte taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre nessuno sembrava disposto ad aprire bocca o becco. — Ecco, — disse il Dronte, — il miglior modo di spiegarla è farla.”
(L. Carrol, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie)
Come si può cercare di rimettere in gioco uno dei pilastri della letteratura senza cadere in una rete di facili stereotipi o ingarbugliate e noiose riflessioni?
La risposta ci viene dallo stesso Lewis Carrol, “Il miglior modo di spiegarla è farla” ed è proprio ciò che fa la giovane regista Caterina Dazzi mettendo in scena il suo allestimento di “Alice”.
Accostarsi ad uno dei più grandi capolavori della letteratura è un rischio sotto molteplici aspetti, quando poi ci si scontra con una storia che è nell’immaginario di ogni bambino ormai da secoli, il rischio di cadere nel retorico e nello stereotipato è dietro l’angolo, ma ciò la regista ci presenta non è una storia per bambini.
La storia di Alice diventa un percorso di crescita che passa per il dialogo con la piccola Alice interiore che viene a bussare alla testa di ogni spettatore. La bambina insieme al pubblico si interroga sulla direzione da prendere e le discordanti risposte le vengono date con la veemenza tipica dei sogni, in cui tutto diventa gigantesco, anche aver mangiato un biscotto proibito.
La scenografia si avvale di un unico elemento che si trasforma continuamente, un armadio dai mille ruoli: dalla casa del Bianconiglio, al rifugio del Brucaliffo, ogni volta che la porta si apre un nuovo personaggio, è pronto a sbucare fuori, dodici personaggi interpretati da sei attori che riescono a trasformarsi completamente in un baleno, seguendo il ritmo frenetico della storia.
I costumi contribuiscono ad immergere lo spettatore in un’atmosfera surreale, dal gusto steampunk, sembrano usciti proprio dalla matita colorata di una bambina, ma riflettono anche gli incubi e le paure dell’infanzia.
Alice in questa versione della storia ha il volto di Michele Eburnea, che però non abbandona gli abiti femminili di una delle bambine più amate della storia della letteratura, con le sue converse rosa si muove disorientato per il palco, non perdendo la grazia del personaggio che riveste, ma non abbandonandosi a troppo facili movenze femminili. La sua Alice perde ogni connotato di genere e va oltre, diventando il fanciullo che non riesce ad andare via con l’età adulta.
La regia di Caterina Dazzi riesce a trasformare la sala del teatro in un viaggio interiore, restituendo alla fiaba il suo potentissimo ruolo di maestra senza tempo.
Mila Di Giulio
9 ottobre 2019