Recensione dello spettacolo Cervus, andato in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo il 5 e 6 Ottobre 2019
Ken (Michele Demaria) e Cynthia (Ludovica Apollonj Ghetti) viaggiano nella notte, la notte del loro rapporto. Lui è riluttante a fare i conti con lo scarso talento di scrittore da remainder. Lei, insegnante che ha dedicato la vita agli altri, ha visto la casa (e la vita) svuotarsi: la madre malata è morta, la figlia scansafatiche se ne è andata a vivere con un attorucolo, anche il gatto la ha abbandonata. Lungo il viaggio Ken blatera senza sosta, lei ha lo sguardo perso nel vuoto. La meta è una solitaria casa di campagna dove, finalmente astratti dalla vita usuale, lui spera di ritrovare l’appetito sessuale (si sa che per gli uomini è l’unico parametro che valga) e il bandolo smarrito di un matrimonio spento. Rari sprazzi di luce si alternano al buio.
Nei lunghi secondi di oscurità, davanti alla macchina, improvvisamente, si para un cervo. L’animale travolto rantola, sanguina. Ken lo finisce; Cynthia, inspiegabilmente lo raccoglie come fosse vivo e pretende di portarlo a casa. Il cadavere del cervo finirà così surrealmente disteso sul divano di casa, al centro della loro vita coniugale. I due protagonisti, in un crescendo di follia, trasformeranno gli infiniti monologhi interiori in un dialogo con il cervo, che, docilmente, asseconderà le loro aspettative. Lamentandosi e facendosi allattare come un infante o ascoltando compiacente l’ultima opera dello scrittore fallito.
Cos’è l’altro nel rapporto d’amore? Per Cynthia il destinatario di un irrefrenabile bisogno di accudimento; per Ken lo specchio delle sue vanità. L’altro in amore, pare dire Aaron Mark, non è mai un soggetto attivo, con cui sia possibile l’interlocuzione capace di costruire, ma un oggetto comunque. Della stoica dedizione, che altro non è che espressione di un cupio dissolvi, della ipertrofia del sé, che cerca nuovi territori verso cui espandersi. Null’altro che un vuoto contenitore delle proprie nevrosi: tanto vale sostituirlo con un cadavere. Ma una carcassa è un oggetto d’amore che gronda sangue. Sangue che macchia le mani, i volti, gli abiti; sangue che impregna; sangue che non può esser ripulito perché permea a fondo le fibre dei tessuti. E quello che sembra il climax della vicenda, segnato da un catartico lavacro, è invece solo la porta verso un finale ancora più sorprendente.
La Compagnia Lumik Teatro, fondata da Michele Demaria (regista, traduttore e protagonista del testo) e da Ludovica Apollonj Ghetti, dopo il fortunato esordio di «Ciccioni con la gonna» di Nicky Silver, con cui ha vinto il Festival Inventaria, attinge nuovamente alla moderna drammaturgia americana.
E il primo merito da ascriverle, in un elenco che compone un giudizio più che lusinghiero, è proprio l’aver portato sui palcoscenici italiani questo testo di Aaron Mark. Un'analisi profonda ed acuta delle dinamiche di coppia in un tessuto narrativo che offre di continuo soluzioni sorprendenti, ma, al contempo, inevitabilmente ammissibili dalla logica. L'uso spregiudicato del paradosso, che, kafkianamente, diventa più vero del reale. Un ritmo incalzante di sterminati monologhi e di dialoghi serrati, che fanno digrignare i denti in un riso amarissimo, ma al contempo spalancano finestre su orizzonti di disperazione. Tutto questo è nell’opera di Mark, che trova assoluta credibilità letteraria anche nella nostra lingua, grazie alla precisa traduzione dello stesso Michele Demaria.
In tutto il lavoro portato in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo si ravvede estrema cura e felice intuizione. Nelle scenografie essenziali ed eloquenti, che, con ingegnosità, imperniano i movimenti di scena attorno al tragico baricentro, costituito dal cadavere del cervo. Nel sapiente uso delle luci e del commento musicale. Da ultimo, ovviamente non per importanza, nell’impegno profuso dai due attori in una performance sfiancante, che li conduce, attraverso fiumi di parole, dalle paludi della nevrosi al pozzo senza fondo della follia. Il loro crescendo è sostenuto e costante; gestito con sicurezza è l’alternarsi dei registri, fra il nero umorismo e l’ancor più cupo dramma. Bravi.
Dopo le due prime prove, Michele Demaria e Ludovica Apollonj Ghetti, la Lumik Teatro, sembra abbiano un progetto preciso, per una strada che è ancora in corso di tracciamento. Una strada dove storie attuali e moderni modi di raccontare non si sostituiscono alla tradizione, ma la rinnovano con nuova linfa. È una strada dove sarà gratificante seguirli.
Valter Chiappa
8 Ottobre 2019