#recensione Diario di viaggio dal Festival Mondial Des Théâtres Des Marionnettes
Il Festival Mondial Des Théâtres Des Marionnettes (FMTM19), che si svolge ogni 2 anni a Charleville-Mézières, in Francia, rappresenta il più grande raduno di burattinai e artisti del teatro di figura al mondo, costituendo per diretta conseguenza un’esemplare e lodevole occasione di democratizzazione della cultura e di sensibilizzazione del pubblico ad una forma d’arte universale, simbolica e straordinariamente poetica.
Il mio nome è Giuditta Maselli e dal giorno 27 Settembre al giorno 29 Settembre 2019 – data di chiusura dell’FMTM19 – il mio compito sarà quello di impiegare i miei occhi e la mia penna per mostrarvi l’individualità variopinta e magicamente attraente di questo mondo e il volto unico di un festival di cui, spero, potrete godere assieme a me.
GIORNO 1 – Venerdì 27 Settembre 2019
Con una velata malinconia uggiosa che mi appare tipicamente francese ha inizio la mia prima giornata qui al Festival Mondial Des Théâtres Des Marionnettes 2019. Incamminandosi per le strade della cittadina, il ticchettio esile della pioggia e l’aroma caldo dei croissant inaugurano questa mia esperienza tanto aspettata, e che, di fatto, poco si fa aspettare: il primo spettacolo per me (e per voi) in programma ha, infatti, inizio alle ore 9:00.
COUCOU/KUKU (Collectif Ma-Théâ & Ljubljana Puppet Theatre)
É con lo spettacolo "Coucou/Kuku" del Collectif Ma-Théâ & Ljubljana Puppet Theatre che ha inizio il mio viaggio nell'affascinante atmosfera della pittoresca Charleville-Mézières, la cornice ideale per ospitare artisti provenienti da tutto il mondo, ingegneri della meraviglia, artigiani dell'incanto, cultori della più ardita creatività, che nel teatro di figura sintetizzano la naturale osmosi di due identità che comunemente il pubblico teatrale si è abituato a pensare antitetiche: l’ingegno e la poesia. Estesa alla forma massima della propria declinazione, si disvela, dunque, una concezione di fare e fruire il teatro che esplora visioni e linguaggi innovativi, risultato di studio e ricerca sui materiali e su tutti i loro possibili livelli di significato. Lo spettacolo con il quale questa mia trasferta estera comincia conserva per l’appunto, nelle proprie immagini e nelle sue tenere suggestioni, segni pronunciati di un teatro che, riducendo audacemente la comunicazione verbale, adopera l’idioma archetipico dell’arte, visivo e sensoriale, che valica le barriere linguistiche, la composita geografia che siede in platea e persino l’estesa differenza anagrafica che differenzia il pubblico accomodato in sala. L’efficacia di una tale modalità di lavorare lo spettacolo non emerge, pertanto, dal solo prodotto che, al termine della performance, si mostra nella sua completezza, bensì anche e soprattutto in un senso partecipato e condiviso del teatro che poi, storicamente, ne definisce la stessa personalità. La detonazione surreale e onirica di oggetti che si lasciano animare da un soffio di vita, iniziando ad abitare lo spazio teatrale e lo sguardo degli spettatori con rispettosa delicatezza, è, infatti, sguarnita di testo; sono piuttosto i suoni, i rumori, i canti che, al di là della lingua, rievocano incondizionatamente in ognuno percezioni univoche, a nutrire la scena; le azioni giocate dai due attori, il loro essere sapientemente bambini, senza scivolare in un’imitazione goliardica del complesso e dimenticato mondo infantile, permette ai più piccoli spettatori di guardarsi allo specchio e ai più grandi di rivedersi nostalgicamente in una vecchia fotografia colma di ricordi di qualcosa che un tempo è stato anche loro. A ragion veduta, lo spettacolo indossa chiaramente un ruolo didattico avanguardista, che indaga l’universo neonatale e le prime fasi di vita e crescita dell’essere umano come qualcosa che non riguarda, però, soltanto i bambini, bensì ogni tipologia di pubblico, il quale, indistintamente dall’età, ritrova in ciò che vede tracce di ciò che è stato.
Per informazioni sul lavoro della compagnia consultare il sito: https://www.luciefelix.fr/portfolio/kuku-coucou/
Il mio viaggio a Charleville-Mézières prosegue di teatro in teatro, di spettacolo in spettacolo. Mentre, infatti, mi incammino verso la destinazione successiva, trovo già una ragione di critica nei confronti del festival di questa magnetica città, dalla cui strade si riversano senza interruzione alcuna centinaia di artisti, vivi o meno, che con capace seduzione rubano la mia attenzione ad ogni passo, rallentando un programma già fitto di impegni. Mi avvalgo di una determinazione che fa sonoramente a pugni col mio istinto a fermarmi di continuo, ma, al termine di una strenua lotta, giungo finalmente alla meta.
JOSÉPHINE LA CANTATRICE (Le Pilier Des Anges)
Diversamente dal primo, questo spettacolo presenta lo scoglio, anche piuttosto significante, della lingua, che in modo inevitabile impedisce una globale e appagante fruizione del risultato. Ciò nonostante, però, è l’atmosfera visiva ad esercitare il maggior potere all’interno della performance, che conferisce alla solerte scenografia e al sapiente gioco delle luci l’investitura più saliente, al punto che, malgrado la mancata comprensione della sostanziosa parte verbale che connota la drammaturgia, lo spettacolo risulta comunque toccante e riesce a definire con efficacia il tempo e lo spazio della trama facendo giustamente leva su una mescolanza di generi, quali i video, i giochi d’zioni e l’impiego dei buratti. È, infatti, proprio la multidisciplinarietà il punto di forza dello spettacolo, che nell’esperta manipolazione di differenti materiali scopre un livello comunicativo che, probabilmente, da solo, sarebbe bastato.
Per informazioni sul lavoro della compagnia consultare il sito: https://www.lepilierdesanges.com
Tra rapidi appunti e un ancor più rapido panino, insisto a rapire con gli occhi quanto più possibile. A Charleville-Mézières non esistono pause e chi si ferma giusto il tempo di riposare i piedi è ben consapevole di potersi perdere qualcosa che magari si sta svolgendo dietro l’angolo o all’interno di qualche magica scatola riservata alla vista di un solo spettatore alla volta. Sì, perché il FMTM19 è come un gigantesco site-specific show senza sosta, che vive nei teatri, sì, ma anche – e soprattutto – per la strada, nelle piazze, all’interno delle case o persino dentro la pancia di cinque giganteschi camion colorati che contrastano il cielo grigio come le strampalate carovane circensi di Barnum e dei suoi amati Freak. L’aspetto museale è sorprendente e macabro ad un tempo solo: carcasse di meccanismi metallici e lignei definiscono perimetralmente forme antropomorfe, automi di animali che reagiscono vividamente al semplice giro di una manovella. Una galleria di congegni sbalorditivi che rilasciano come un grave effetto collaterale quello di restarsene per dieci minuti abbondanti con la mascella aperta dallo stupore.
JOE 5 (Duda Paiva Company)
La storia post-apocalittica raccontata da “Joe 5” trapianta nel pubblico un organo che non è il suo: un tempo anacronistico, un mondo chimerico, un sistema inconcepibile, dove è l’uomo ad essere manovrato, tenuto fermamente da fili di resistente dominio che pupazzi sconcertanti stringono con sadica decisione nei pugni. Joe 5 è un neo- umano, abitante solitario di un caotico universo dove le dimensioni che ancorano l’uomo ad un senso di indispensabile riconoscimento delle cose cessano di essere. Lo scossone che la sua ridondante e passiva esistenza riceve diventa stimolo per il racconto di un viaggio, di cui lo spettacolo si ciba avidamente. La distopica realtà costruita mattone dopo mattone da Duda Paiva si serve con integrato equilibrio tanto dei corpi di gommapiuma quanto di quello, di carne e sangue, del performer, solo in scena con i suoi morbidi aguzzini, che fa dono al pubblico di un superbo lavoro tanto nella danza quanto nella manipolazione e nell’interazione con i pupazzi. Un assolo di straordinaria poesia visiva, che riesce specialmente grazie ad uno sbalorditivo intervento di video-mapping e ad una mirabile conduzione delle luci sulla scena.
Per informazioni sul lavoro della compagnia consultare il sito: https://dudapaiva.com/en/
La giornata volge al termine, come confermano le mie gambe dolenti ed una certa umidità che si propaga velocemente per le vie asfaltate. L’ultimo spettacolo in programma per oggi, però, si fa attendere ancora un po’ e malgrado la mia fisiologia cominci a mandarmi chiare e perentorie richieste dell’urgenza di una pausa, la curiosità non molla la presa e mi spinge, quasi arbitrariamente, di fronte alla vera anima dell’FMTM19, quella urbana e popolare, che si consuma ad ogni ora su offerta libera nella piazza principale di Charleville-Mézières. Qui ci si scontra con l’enorme disagio che si prova trovandosi di fronte ad un’idea tanto geniale e bella che avresti desiderato voler essere la tua; qui si trova conferma dell’incommensurabile potere immaginifico che distingue l’uomo da un qualunque altro essere vivente. Artisti il cui talento scenico è superato unicamente dalla loro idea di spettacolo, trapuntata di un’originalità che si fatica a descrivere, poiché è chiaro che sia svincolata dalla matrice con cui in Italia siamo abituati a vedere e pensare il teatro. Mi accingo a riprendere la direzione verso il mio prossimo spettacolo con una predisposizione alla sorpresa che da tanto tempo ormai non ricordavo più di avere.
GULA BEN (Compagnie Pupella-Noguès)
“Gula ben” è senz’altro un spettacolo che scuote per le immagini e per la sua indecifrabilità, che ben rimanda ad un tema che è, quasi per indole, criptico ed intellegibile. Da sempre, l’uomo considera selvaggio tutto ciò che non è civilizzato, che appartiene alla natura grezza e ostile, che esiste oltre il proprio orizzonte conosciuto e codificato. Eppure, con dissacrante ed impertinente istigazione, è esattamente un ambiente selvaggio il palco della vicenda narrata; un ambiente fatto di oscure foreste, animali selvatici, rumori che vivono nell’atto stesso della rappresentazione assorbendo il pubblico in maniera estremamente reale e convincente. La giovane protagonista, così come ogni spettatore seduto in sala, viene catapultata in un mondo che non conosce, nel quale suoni e apparizioni inquietanti la portano a scoprire e sperimentare sensazioni che, proprio come quella foresta mai vista prima, le risultano estranei. Tutto passa attraverso il corpo degli attori: i burattini, gli oggetti, le maschere, che nella propria fissità permettono un inaspettato gioco espressivo che guida gli spettatori alla comprensione delle diverse scale di significato su cui lo spettacolo gioca e in cui volto della protagonista è sempre indossato, tanto dagli attori quanto dai burattini manipolati. Encomiabile, poi, il lavoro della luce, cui va il merito di riuscire a creare un'atmosfera pregna di angoscia e cangiante, effetto, quest’ultimo, reso maggiormente vivido anche dalla musica suonata dal vivo, che potenzia le azioni di una forte carica emotiva, alle volte contrassegnando con la chitarra elettrica i momenti prominenti della storia, altre, poi, servendosi del clarinetto per rimarcare attimi di sospensione ed indugio.
Per informazioni sul lavoro della compagnia consultare il sito: http://pupella- nogues.com
Giuditta Maselli
28 settembre 2019