Recensione dello spettacolo La vita ferma, sguardi sul dolore del ricordo in scena al Teatro India dal 3 al 14 maggio 2017-05-14
“Impuntarsi e decidere di ricordare una persona morta, passato un certo periodo di tempo, è metabolicamente difficilissimo, perché il corpo non vuole, la testa non vuole. Sì, ogni tanto qualche sprazzo di memoria si apre, però tu non sai più i colori, i suoni, i dettagli. È una visione raffazzonata. È il dato conosciuto del presente che cerca di vivificare l’immagine, sempre più imprecisa, e non ci riesce. Perché tutto in te vuole solo andare avanti, vuole vivere il tuo futuro”.
Con queste parole si apre il “dramma di pensiero” in tre atti La vita ferma, sguardo sul dolore del ricordo, ultimo capolavoro dell’inquieta e prolifica Lucia Calamaro che, dopo il debutto dello scorso anno al Festival di Terni, continua a commuovere, a scuotere e a far riflettere il pubblico italiano, affezionato a quei testi e personaggi così toccanti, intensi, ironici, vivi.
Vivi come il dramma di chi deve fare i conti con la complessa e sempre piuttosto colpevolizzante gestione interiore dei morti. Non la morte, dunque, e neppure il problema del morire e di chi muore: oggetto d’indagine della Calamaro e del suo ultimo lavoro teatrale sono i morti e il loro modo di esistere in noi e fuori di noi. Attraverso il ricordo. Un ricordo che da vivido, sfuma e sbiadisce col passare del tempo, accentuando il senso di colpa di chi resta e condannando all’oblio chi non c’è più. Come succede agli attori, di nome e di fatto, Riccardo (Goretti), Simona (Senzacqua) e Alice (Redini).
Riccardo è alle prese con un imminente trasloco e il ricordo ancora doloroso e fresco, al punto da sentirlo e toccarlo, di sua moglie Simona, morta di recente. Simona, o per meglio dire il suo fantasma, terrorizzata dall’idea di essere dimenticata, rivive e aleggia tra gli oggetti in attesa di essere inscatolati e le pareti di una casa ormai vuota, asettica, troppo bianca. Unico tocco di colore sono le biglie che da lì a poco rovescerà sul pavimento per ricordare il loro primo incontro al planetario. Un vero e proprio colpo di teatro che, senza cambi di scena, trasporta il pubblico in sala in un’altra dimensione, più leggera e scanzonata, regalandogli momenti di pura ilarità.
Cinquanta minuti che svelano e rivelano, sin da principio, l’indicibile, per comunicare ad un altro livello: quello dell’anima. Senza troppi preamboli e in un flusso ininterrotto di pensieri, i protagonisti, insieme allo spettatore, sono chiamati a fare i conti con il problema della memoria: l’esigenza dei morti di essere ricordati per quel che erano e il bisogno dei vivi di rimpiazzare quel ricordo per andare avanti.
E si va avanti, anzi indietro, fino al momento della scoperta e dell’accettazione della malattia, raggiungendo, in questo secondo atto, attimi di pathos che - come la stessa Calamaro afferma - è “l’unico capace di incarnare e raccontare i disastri che compongono in parte una vita e la natura scandalosa e oscena del diktat dell’oblio”.
Il ritmo è più lento e drammatico rispetto al precedente: questa volta il problema della memoria e dell’elaborazione del lutto è affidato alla sensibilità della figlia undicenne Alice che, venuta a conoscenza della malattia della madre, si interroga su come debba essere la morte e se esista o meno un modo per abituarsi all’assenza. Ma “l’elaborazione del lutto è un mero assecondare la natura, un processo di salvaguardia della specie, la specie dei vivi”, e prima o poi il dolore svanisce, insieme al ricordo, e non si soffre più.
Non si soffre più quando inizia il terzo e ultimo atto (il più breve e commovente dei tre): Alice è donna e quasi madre ormai, ma della sua non conserva che una vaga e confusa immagine. “Perché il cervello dei vivi funziona come al solito, intreccia immagini, parole, nuovi incontri, sente, filtra, inibisce. Lo spazio mentale si ristruttura nella stessa velocità con cui gli stimoli esterni continuano tutti a sollecitarti, come se niente fosse”.
Non riesce neppure a ricordare quale sia la sua tomba, quando insieme al padre, che non vede da anni, torna al cimitero, alla ricerca di quel legame col passato, essenziale per spiegare il presente e soprattutto il futuro. Ma c’è qualcosa col passato che non quadrerà mai, così come il perenne tentativo di eliminare ogni strappo, ogni buco, ogni vuoto che una perdita ha lasciato.
Un tema da sempre molto caro alla Calamaro, che ritroviamo puntualmente nei suoi testi e nei suoi personaggi dalla dignità letteraria, che parlano una lingua autoriale, pregna di senso e mai priva della giusta dose di ironia, senza della quale non si potrebbero affrontare temi drammatici come questi.
Una scenografia, curata anch’essa dalla Calamaro, che partecipa all’azione (ogni oggetto ha un suo ruolo all’interno della rappresentazione) e insieme ai protagonisti si confonde con la realtà circostante fino a farci dimenticare di assistere ad una messa in scena.
Tre attori a cui va il merito, oltre al riconoscimento di uno straordinario talento, di aver fatto proprio un testo non facile, al punto da farcene percepire ogni piccola sfumatura, facilitandone il ricordo.
Concetta Prencipe
15 maggio 2017