Recensione dello spettacolo La scuola delle scimmie di Bruno Fornasari in scena al Teatro Sala Umberto dal 26 al 31 marzo 2019
La scimmia è l’animale da cui deriverebbe l’uomo secondo la teoria di Darwin, ma nel contempo, nel quotidiano, ricorriamo spesso all’immagine di questo animale in senso dispregiativo quando usiamo l’espressione “scimmie ammaestrate”. Il titolo dell’ultimo spettacolo di Bruno Fornasari, La scuola delle scimmie, gioca su questa doppia sfumatura di significato introducendoci ad una drammaturgia complessa ed articolata che affronta l’annoso conflitto tra creazionisti ed evoluzionisti dipanato anche nella realtà dell’istruzione scolastica. In realtà ad essere analizzati e sviscerati sono i fanatismi in quanto tali, da quello religioso a quello scientifico. Il testo di Fornasari scende in profondità, scandagliando tutte le domande esistenziali dell’individuo sul del bene e del male, sull’esistenza di Dio, sulla nostra origine, guardandole attraverso le categorie mentali degli estremismi della religione e della scienza.
Per consentire di addentrarci in contenuti così densi, attraverso l’ironia e il paradosso, l’autore ha scelto di impostare la drammaturgia sulle vicende di due insegnanti, le quali pur appartenendo ad epoche diverse, sembrano avvenire in parallelo e simultaneamente, riprendendo la teoria della relatività di Einstein secondo cui la percezione del tempo non è universale e gli eventi non si susseguono più in un ordine diacronico, ma possono dispiegarsi contemporaneamente. Dunque la storia di John Scopes, avvenuta negli U.S.A. nel 1925 sembra continuare nelle vicende del “professore”del 2015 (ritornato ad insegnare nel suo quartiere di periferia) e viceversa. Le due narrazioni appaiono due facce di una stessa sostanza e hanno un rapporto di osmosi. John Scopes, infatti viene processato e condannato nel Tennessee dei primi decenni del ‘900 poiché, durante una supplenza, aveva tenuto delle lezioni di scienze sulla teoria evoluzionistica di Darwin contro il divieto della legge che ne impediva l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Suo padre, che ha accettato senza mettere in discussione le verità della Bibbia, quindi il sapere tradizionale, si scontra con il figlio che quasi in un stato di delirio e di esaltazione, contesta le credenze convenzionali attaccando soprattutto la fede.
Nel frattempo nel 2015, un altro docente convinto evoluzionista, in una periferica scuola multietnica, propone un progetto in cui le religioni vengono presentate e studiate anch’esse come un frutto dell’evoluzione, ma entra in conflitto con la dirigente scolastica che non accetta quest’approccio che potrebbe portare alla perdita di iscritti. E qui se da una parte ci troviamo di fronte alla rigidità del docente che non ammette la possibilità di vedere una spiritualità insita nella religione, dall’altra si apre uno squarcio sul contemporaneo mondo della scuola diventata ormai un’azienda in cui gli utenti sono clienti da soddisfare, come ci mostra l’inflessibile “Dirigente, non Preside” della scuola in questione. Un altro tipo di fondamentalismo è solo accennato in questa situazione, quello islamico del fratello del docente che spiega così la sua completa chiusura alla tensione verso un credo. Ma nel bel mezzo del dibattito scientifico e filosofico su Dio, la coscienza, la responsabilità e l’autorità, s’insinua in modo imprevedibile anche l’amore, nelle sue diverse declinazioni. C’è un amore che si ferma un attimo prima, quello della fidanzata di Scopes che non ha il coraggio di difenderlo fino in fondo perché suo padre è un pastore e lei è cresciuta con gli insegnamenti biblici. C’è l’amore tra il professore di periferia e la sua ex-compagna che si riavvicina a lui per farsi perdonare dai suoi errori e c’è l’amore adolescenziale della sua studentessa quasi diciottenne che vuole sedurlo a tutti i costi, riuscendo a mandarlo in confusione per un attimo. Dalla reazione del padre del violento padre della ragazza non è chiaro cosa sia realmente avvenuto tra loro.
Una trama così articolata con contenuti altrettanto complessi ha richiesto due atti di 75’ e 45’ minuti, in cui vari linguaggi hanno contribuito alla realizzazione del prodotto finale: video, immagini, dialoghi serrati, una scenografia ad opera di Erika Carretta, curata e adeguata ai vari momenti, con un elemento fisso, un albero in primo piano che ha fatto da sfondo a tutte le stagioni. Interessanti i cambi di scena in cui con movimento e ritmo, Marta Belloni ha creato le coreografie degli attori mascherati da scimmie, che hanno preparato le nuove scene con l’alternanza delle luci curate da Fabrizio Visconti. Tra le scelte della regia, sempre di Fornasari, anche l’interazione dei protagonisti con il pubblico, che in alcuni casi parlano direttamente agli spettatori oltrepassando lo spazio scenico e posizionandosi nella platea con momenti di metateatro. Il livello della recitazione è altissimo da parte di tutti gli attori che hanno dato piena credibilità ai loro personaggi, colorandoli di tutte le sfumature emotive del loro ruolo come per Tommaso Amadio che presta il volto al professore, Luigi Aquilino nei panni di Scopes e Silvia Lorenzo nelle vesti dell’ex compagna del professore. Ma ad eccellere ancor di più nelle doti interpretative, sono gli attori che hanno rivestito un doppio ruolo con caratterizzazioni spesso agli antipodi: Camilla Pistorello è infatti, contemporaneamente la timorata fidanzata di Scopes e la spudorata allieva del professore; Sara Bertalà è la madre-casalinga di Scopes e la rampante dirigente scolastica di periferia; Emanuela Arrigazzi è l’alcolizzata padre della studentessa e l’avvocato Menken, Giancarlo Previati è il padre reazionario di Scopes e lo zio del professore. Personaggi vivi, reali, non appiattiti sul ruolo che difficilmente sembravano ricondursi allo stesso attore.
Tuttavia, nonostante i molti elementi positivi che hanno contribuito a costruire la piéce, l’attenzione dei presenti, nel secondo atto è iniziata a calare. La drammaturgia nel suo sviluppo sembra essersi aggrovigliata su se stessa, inserendo troppi stimoli e spunti di riflessione, saturando quasi lo spettatore in sala che ha la sensazione di un troppo indigesto che neanche l’ironia e il paradosso riesce a snellire. L’insistere oltremodo su tematiche ancora irrisolte ha allungato eccessivamente i tempi della rappresentazione, rendendo poco fruibili problematiche già di natura non facili.
Mena Zarrelli
1 aprile 2019