Martedì, 05 Novembre 2024
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Lotte di potere e utopie democratiche tra Massimo Popolizio e Maria Paiato protagonisti all’Argentina

Recensione dello spettacolo ‘Un nemico del popolo’ in scena al Teatro Argentina dal 20 marzo al 28 aprile 2019

Torna sul palco ma anche dietro le quinte per dirigere la sua seconda opera come regista: Massimo Popolizio, a due anni di distanza dalla sua prima regia, propone al pubblico una moderna interpretazione di un classico del teatro europeo, ‘Un nemico del popolo’. Firmata dal drammaturgo norvegese Henrik Ibsen nel 1882, la piece non poteva risultare più attuale per il fine palato del pubblico dell’Argentina: a introdurre lo spettatore nella narrazione della vicenda ambientata nella piccola provincia americana di fine ‘800 è un ubriaco il cui intervento, tra un cambio di scena e l’altro, ha lo scopo di spiegare in chiave di filastrocca o poesia quello che lo spettatore si appresta a vedere in scena dandogli così il tempo di elaborare una propria opinione sull’azione e sui personaggi. Tale opinione matura con lo scorrere della vicenda che vede protagonista il Dottor Thomas Stockmann: lo spinto da un dovere civico e morale, il dottore vuole a tutti i costi denunciare alla cittadinanza la sua scoperta sull’inquinamento delle acque termali, ma un potere più grande è pronto a zittire la verità nella maniera più feroce .

Quello che si svolge sul palco dell’Argentina tra Massimo Popolzio nei panni del buon dottore e Maria Paiato in quelli del sindaco Peter Stockmann fratello del dottore, è un tipo di conflitto cui siamo abituati ad assistere ogni giorno: la ragione, la verità, il buon senso civico si ribellano contro il potere economico e politico. Ibsen analizza la sua realtà per diventare una sorta di precursore dei tempi moderni: il cosiddetto ‘governo del popolo’, che millanta di operare per il bene comune, si scopre essere manovrato da interessi economici contro cui non possono prevalere gli uomini di buon senso: ‘Che te ne fai della ragione o della verità senza il potere?’ domanda infatti, Khatrine Stockmann (Francesca Ciocchetti) al marito. Ruolo fondamentale nel dramma lo ricopre anche la stampa, qui rappresentata dalla testata ‘La voce del popolo’ nelle vesti dell’editore Aslacksen (Michele Nani) e del direttore Hovstad (Paolo Musio), che Ibsen denuncia di essere abilmente manovrata sottobanco da un potere superiore per cui non è mai realmente imparziale ma presenta ai propri lettori solo ciò che loro vogliono leggere, trascurando cio che è veritiero e ragionevole. Ecco, quindi, che la comunità si rivela profondamente inquinata perchè fondata essa stessa su una menzogna che perdurerà finchè al potere si avrà una classe politica corrotta,  nemica della verità e delle regole della società. 

Nel dramma di Ibsen, Stockmann provoca la riflessione del pubblico in sala chiedendosi che fine abbia fatto il principio della democrazia: è in nome di tale ideale che l’uomo si dovrebbe battere per avere un Paese migliore, eppure quando si tratta di lottare per qualcosa in cui credono, gli uomini si defilano tant’è che l’uomo più forte è anche quello più solo. Riecheggia così nelle orecchie la filastrocca che i personaggi sul palco ripetono più volte: ‘In un Paese di ingrati, è meglio essere odiati che amati’, e la domanda a questo punto è una sola: quanto possono diventare crudeli questi ‘ingrati’ verso un loro concittadino? Il dottor Stockmann lo scopre a spese proprie e della sua famiglia, ma niente lo fermerà in nome di un utopico senso di protezione della comunità.

Grande è l’interpretazione che Popolizio offre al pubblico e che funziona quanto più si increspa il rapporto conflittuale con il suo alterego rappresentato da Maria Paiato, nelle vesti di un sindaco finemente affascinante nel suo ruolo di “detentore del potere” della città e che proprio per questo, senza troppo stupore, esce vincitore dalla guerra contro il fratello. Denunciando come il diritto di governare non debba essere permesso a tutti poiché ‘sulla faccia della terra gli imbecilli costituiscono la maggioranza’, il dottor Stockmann si inimica tutti in città diventando proprio lui il nemico del titolo.

Diversamente dal personaggio originario, Popolizio sceglie qui di attribuire al dottore una connotazione meno razionale e più positiva, scelta che si rivela ancora più efficace ogni volta che il personaggio deve affrontare un confronto con gli altri: fin da subito tutti gli attori dimostrano di essere perfettamente calati nei loro ruoli tanto da trasmettere immediatamente allo spettatore le contraddizioni che ogni personaggio incarna. 

L’ambientazione poi, quasi cinematografica grazie all’ineccepibile scenografia di Marco Rossi resa ancora più incisiva dai costumi curati da Gianluca Sbicca, intende attribuire una chiave di lettura più moderna all’opera ottocentesca che risulta così più vicina ai nostri tempi, mentre una nota decisamente più comica si avverte nei dialoghi e nelle situazioni che si vengono a creare tra i diversi personaggi e che si rivela tanto più profondamente riflessiva e amara quanto più è ironica. 

Se come attore Popolizio vive la scena come il suo habitat naturale, da regista rivela un occhio più cinematografico che favorisce maggiormente di catturare l’atttenzione anche di quello spettatore abituato alla visione dei serial televisivi. Questa concezione di una messinscena in modo più cinemotografico è evidente nella scena finale del dramma con l’ideale campo lungo che vede il dottore allontanarsi idealmente dall’obiettivo della macchina da presa, proprio come in un film, quando in realtà la profondità della scena è limitata.

Infine, la scelta di non concludere la pièce nello stesso modo in l’autore l’aveva concepita ma lasciando lo spettatore in sospeso sul destino del dottore e della sua famiglia, da una parte sembra voler connotare il testo in maniera più negativa, dall’altra invece sembra voler rafforzare quell’utopico sentimento di fiducia in un domani migliore che aleggia nel dramma di Ibsen.

 

Diana Della Mura      

23 marzo 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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