Venerdì, 22 Novembre 2024
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Nerium Park: il dramma della solitudine di un individuo schiacciato dal sistema

Recensione di Nerium Park in scena al teatro Spazio Diamante dal 21 al 24 marzo 2019

 

Nerium è il genere a cui appartiene la pianta dell’oleandro il cui nome completo è Nerium Oleander e sembra essere insita già in questo la sua caratteristica pericolosità, tossicità. Nerium è anche il nome del Parco residenziale in cui ha scelto di vivere una giovane coppia, Bruno e Marta e che deve il nome alla folta presenza di oleandri, che sembra già un simbolico infausto presagio. I due giovani coniugi hanno deciso di acquistare un grande appartamento fuori città in questo luogo in cui nessun altro ci vive e ci andrà vivere per tutto il tempo della loro permanenza. Da subito appare evidente che si tratta di posto solo esteriormente comodo e funzionale, perché gradualmente inizierà a mostrare segni di abbandono e decadimento, fungendo da correlativo oggettivo allo stato d’animo di Bruno e Marta che gradualmente si allontanano, abbandonando la loro relazione. A mettere in crisi la coppia, il licenziamento di Bruno, la cui identità va completamente in frantumi dopo quest’evento.

 

A fare da contraltare alle sue vicende, la situazione della moglie, che nella sua azienda si occupa di risorse umane e ha proprio il compito di valutare chi rimane e chi sarà il prossimo a perdere il lavoro. Dunque due vicende umane opposte e parallele, due solitudini profonde che non si incontrano mai davvero. Fin dal primo momento Marta non si sente sicura nel complesso del Nerium Park nonostante la presenza del marito e manifesta le sue nevrosi immaginando di essere spiata da impossibili vicini. Bruno, a sua volta, si sente perso dopo la perdita del lavoro e cerca conforto in figure immaginarie su cui proietta la sua condizione che è la stessa degli impiegati messi per strada dalla moglie. Neanche la gravidanza di Marta riuscirà a ricreare un legame profondo tra i due e riuscirà a salvarli da se stessi. 

La drammaturgia che porta la firma del talentuoso autore catalano Josep Maria Mirò, è densa di tematiche e significati e arriva al pubblico come un violento pugno allo stomaco. Non viene digerita nell’immediato, ma rimane addosso allo spettatore per alcuni giorni, prima di liberarsi di quelle sensazioni e di quelle emozioni drammatiche provate durante lo spettacolo. Il testo, infatti, inscena il dramma che consegue alla mancanza di comunicazione autentica all’interno della coppia e non lascia una via d’uscita. Bruno e Marta sono due monadi agli antipodi e l’uno non riesce a compenetrarsi nel mondo umano e personale dell’altro. Due distanti visioni sulla società e sulla vita, su una delle problematiche attuali più scottanti, la perdita del lavoro: lei è un’esecutrice delle regole del gioco imposte dal sistema economico occidentale di cui non si sente responsabile ribadendo più volte: “Non le ho fatte io le regole”; lui un puro, un ragazzo pulito, ancora non contaminato dalla spietatezza di questo sistema che fatica a comprendere e ad accettare e sotto cui soccomberà, lasciato solo da una moglie che è pienamente integrata in esso. In questo senso si potrebbe parlare anche di teatro civile di Josep Maria Mirò, ma non solo. L’introspezione e l’attenzione alla psiche umana dei personaggi sono costanti. Da subito Marta attua atteggiamenti e comportamenti ossessivi, nevrotici, controllanti verso l’ambiente esterno che non è sereno, rassicurante, ma minaccioso, mentre Bruno appare più pacifico e conciliante, accettando con tranquillità e con amore i comportamenti della moglie.

Il mondo esterno, ben rappresentato dal complesso abitativo deserto e spaventoso, sembra acquisire una doppia valenza per l’autore: per certi aspetti è la proiezione del mondo interiore di un individuo che non si sente più al sicuro in questo momento storico, che sopravvive cercando di controllare le proprie paure; per altri aspetti sembra essere il risultato di una fittizia società del benessere che ha come l’obiettivo il capitale e ha costruito un habitat non confortevole e adeguato alle reali esigenze e ai reali bisogni dell’essere umano. Nella drammaturgia quindi s’intrecciano perfettamente lo scandaglio psicologico e l’osservazione dei fenomeni sociali ed economici. La regia di Mario Gelardi, noto regista napoletano che si occupa prevalentemente di teatro civile, non trascura nessun dettaglio. Il lavoro sui personaggi è notevole soprattutto nel caso di Bruno, di cui veste i panni un bravissimo Alessandro Palladino, che riesce ad entrare completamente nel suo ruolo connotando il suo personaggio di tutte le sfumature della sua psiche. Al pubblico arriva tutta la purezza e l’ingenuità di Bruno e anche la sua tragica condizione di solitudine che lo porta ad atteggiamenti deliranti. Assistiamo alla parabola di questo personaggio che parte da una condizione di ascesa per giungere ad una discesa rovinosa da cui non risalirà più. Nonostante l’eccellente interpretazione di Palladino, il suo viso troppo giovane a volte sembra non supportare perfettamente l’età che potrebbe avere chi si trova a vivere le problematiche di Bruno nella vita reale.

L’interpretazione di Chiara Baffi è in crescendo, solo alla fine verranno fuori tutte le sue doti interpretative nei momenti di disperazione assoluta, restituendo al pubblico tutto il senso dell’impotenza e delle tragiche conseguenze a cui si può arrivare quando si è ignorato l’altro. Inizialmente aveva eccessivamente calcato l’accento sugli aspetti nevrotici del suo personaggio, rendendolo a tratti poco credibile. Interessante anche la scelta del regista di creare una distanza corporea nel momento della separazione, facendo sedere a distanza di fronte i due personaggi. Adeguate a creare i momenti di sospensione nei cambi scena le musiche di Tommy Grieco mentre il disegno luci di Alessandro sottolinea i passaggi più significativi. 

 

Mena Zarrelli

23 marzo 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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