Recensione dello spettacolo “I giganti della montagna”, in scena al Teatro Eliseo dal 13 al 31 Marzo 2019
Vestigia di un teatro in un luogo senza coordinate. Ruderi come un baluardo. “Villa Scalogna”, l’avamposto di Cotrone il Mago. O il suo ultimo eremo. Attorno figure bizzarre, dagli abiti variopinti, che strepitano stridule, si agitano convulse. Un grande telo ondeggiante, dove le proiezioni prendono forma. Nella sua ultima opera Luigi Pirandello, prima che il sipario sulla sua parabola artistica si chiuda, con un coupe de théâtre strappa via ogni maschera, l’orpello creato dalla ragione per dare un senso apparente alle cose (e al drammaturgo un filo su cui tessere una trama) e ci conduce dritti dietro di essa, nell’unica realtà possibile, quella della mente. La sua. Ci presenta le creature che la popolano, assurde solo per chi si ostina a credere all’apparente.
Ed ecco che il Teatro, pur devastato, rimane il solo luogo per contenerle e, con il dono della magia, orchestrarle. Cotrone si pone quindi antiteticamente a Prospero, l’altro grande Mago della storia del teatro. Se il Demiurgo di Shakespeare, nello spazio scenico della sua isola, usa la magia di cui è capace per dare ordine al mondo intorno a sé, il personaggio pirandelliano utilizza la sua arte per salvare il Sé dal caos della follia.
Il discorso sul Teatro del grande siciliano si completa affrontando il problema del rapporto con un mondo esterno, che comunque esiste. Antepone quindi a Cotrone, un altro monumentale personaggio: la contessa Ilse, che ha sacrificato la ricchezza, pur di mettere in scena «La favola del figlio cambiato» (opera dello stesso Pirandello) e che trascina la sua compagnia stremata dalla fame nella ricerca vana di un palcoscenico su cui esibirsi. A nulla valgono gli inviti di Cotrone: la Contessa decide di abbandonare il mondo sospeso e affrontare quello contingente, dove la attendono, terribili, i Giganti, simbolo di un’umanità abbrutita nella soddisfazione del bisogno effimero e per questo sorda al richiamo di ogni possibile bellezza. Teatro come terapia quello di Cotrone, per Ilse impegno estremo nella speranza di salvare il mondo.
«I giganti della Montagna» è opera incompiuta. L’ultimo atto fu vergato dal figlio di Pirandello, Stefano, che pare abbia raccolto le indicazioni del padre morente. Lavia, nel suo allestimento, omette quel finale drammatico. Non è (solo) correttezza filologica, bensì la volontà di lanciare un ultimo, disperato messaggio di speranza: il Teatro potrà ancora salvarsi e salvarci.
Testo poderoso e ponderoso, di enorme difficoltà per l’intricata tessitura e la complessità delle tematiche trattate, «I giganti della montagna» rappresenta un banco di prova ed uno stimolo irresistibile per chi, come Gabriele Lavia, è, dall’alto della sua carriera, titolato a pronunciare un discorso di ampio respiro e riassuntivo sul teatro e, in fondo, su sé stesso.
Lavia profonde il suo impegno in uno strabiliante lavoro di regia, imperniato su una gestione minuziosa dell’imponente corpo attoriale (22 attori). Impone agli interpreti frenetici spostamenti, movenze burattinesche, mimica facciale esasperata ed ogni altro tipo di virtuosismo fisico e vocale. Ma da quel caos riesce a costruire quadri di insieme di grande effetto evocativo, come ad esempio nella scena in cui i Fantocci, accatastati si animano e sussultano in un perfetto sincrono. Le impalpabili ed inafferrabili identità dei singoli personaggi vengono imbrigliate dal Mago e la massa recitante si muove sul palcoscenico come un organismo solo, vivo e pulsante, al punto che, circostanza del tutto inusuale, è impossibile concentrarsi, o addirittura discernere, l’interpretazione dei singoli. Lo stesso Lavia, per una volta, rinuncia al protagonismo e mette il lavoro interpretativo a servizio della compagnia, ritagliando per sé solo brevi, ma comunque mirabili, episodi, fra cui una sorprendente esibizione di cantato. Così il plauso che si deve a una performance straordinaria, può essere tributato non altro che a tutti i magnifici attori, membra inseparabili di un corpo unico.
Ma il dualismo proposto fra i personaggi principali si rispecchia anche nella diversità delle scelte di regia. Al Mago eremita Lavia intende anteporre Ilse, su cui accende i riflettori, riconoscendo così esplicitamente la sua predilezione per l’attributo dell’impegno eroico, rispetto all’aulico estraniarsi dell’Artista. Così lo spazio solistico che il testo concede alla Contessa viene enfatizzato, richiedendo a Federica De Martino di assumere il dominio della scena. L’attrice, il viso emaciato, il corpo smagrito, risponde con una interpretazione sofferta e struggente, fatta di pose fatali e dolore ostentato.
Strumento determinante, perfettamente funzionale al dettato della regia è, davvero non ultimo, lo splendido lavoro fatto da Andrea Viotti, con i suoi costumi disegnati con rutilante fantasia, i cui infiniti colori, finiti nella tavolozza di Lavia, si ricompongono in una equilibrata policromia nella complessa costruzione dei quadri, anch’essi tutto che diventa uno. Altrettanto può dirsi per le stupefacenti maschere di Elena Bianchini.
Luigi Pirandello e Gabriele Lavia hanno pronunciato il loro discorso definitivo sul Teatro. I giganti della montagna ci sono tutt’attorno, quotidianamente vediamo i loro volti mostruosi, sentiamo le loro terribili parole. Legittima la paura. L’attore può scendere in scena e sfidarli. Seguirlo si chiama impegno. Si chiama lotta.
Valter Chiappa
20 Marzo 2019