Recensione dello spettacolo Radio Ghetto, andato in scena al Teatro Studio Uno di Roma nei giorni dal 14 al 17 Marzo 2019
Radio Ghetto sfiora il confine della docile interattività con lo spettatore, contrattando con lui un rapporto quasi esclusivo, rappreso nel suono pastoso e penetrante di un paio di cuffie radiofoniche, che lo isolano da tutto quanto è superfluo per proiettarlo in maniera quanto più verosimile possibile nella realtà descritta. Il linguaggio scelto dal collettivo autore di questo esperimento – umano, ancor prima che teatrale – trova in ciò una vincente strategia di rappresentazione di un tema che, non di rado, rischia di sfociare in dissertazioni moraliste, tinteggiate da una marcata nota di buonismo che da tutta l’aria di voler impartire una boriosa lezione di etica perbenista e generalista.
Al contrario, questo, che più che uno spettacolo definirei una trasferta – seppur comoda e riparata – nel mondo ottenebrato dei ghetti dei braccianti agricoli, è come se ammettesse umilmente la propria impotenza dinanzi ad una realtà che spesso, mitigata dal confine dissociante di uno schermo televisivo o un foglio caldo di stampa, trattiene il nostro interesse per il brevissimo tempo di uno sguardo, precipitando poi nel profondo e buio pozzo di ciò che non a che fare con noi.
In linea con una simile considerazione, allora, mettere nella bocca di un’interprete dalla dizione impeccabile e il portamento accademico i respiri, le voci e le grida dei veri proprietari di queste storie sarebbe parso un tentativo annichilente e ipocrita di restituire al cuore pulsante di queste baraccopoli il diritto di parlare. Ecco perché Radio Ghetto conserva con audacia e fierezza quel carattere di indagine che è poi alla base del progetto che si cela dietro la messa in scena della performance, e che traspone abilmente il concetto di radio partecipata, nato nelle campagne dell’agro pugliese come strumento di comunicazione e dibattito per le comunità di braccianti, in una forma scenica sapiente e azzeccata, entro cui l’attrice (Francesca Farcomeni) si dedica con appassionante coinvolgimento al dialogo con la radio e con le voci degli unici, autentici testimoni della vita del ghetto, un luogo così pregno di pura e diversificata umanità da trasformarsi in un topos spaziale per il quale, in un certo senso, è come se fossimo passati tutti. Il viaggio sonoro e immersivo vissuto dal pubblico vale più di ogni approfondito reportage o notiziario.
Racconta un punto di vista diverso, al quale non siamo mai abituati. È un piccolo concentrato di trucioli di storie, conversazioni, rumori, momenti di vita e quotidianità che colpiscono con violenza lo stomaco proprio perché non descrivono accadimenti eccezionali, ad immediato effetto empatico, ma raccontano quella che, se per qualcuno si è terribilmente trasformata nella normalità, a noi infastidisce e fa vergognare.
Giuditta Maselli
18 marzo 2019