Recensione dello spettacolo “Misantropo”, in scena al Teatro Ambra Jovinelli dal 13 al 24 Marzo 2019
Ritorna Alceste e anche se Celimene ha le squisite fattezze di Valeria Solarino non verrà meno la sua caparbietà. Dispettoso l’Amore. Avvicina gli opposti, due entità che sembra non possano essere più distanti. Alceste, il Misantropo, barricato dietro ai suoi ideali, certo adamantini, ma che non trovano concretezza, perché la pietra non si può smussare. Celimene che invece il concreto vive a pieno, nel fiorire delle relazioni che intrattiene, armata dell’incantevole sorriso e di gentili menzogne. Perché la relazione, si sa, è compromesso. Distanti però solo all’apparenza, ma in realtà uniti da una comune fuoco, che lui congela e che lei lascia ardere.
Attendere tenacemente una ideale, ma utopica perfezione; abbracciare un’esistenza apparentemente piena, ma di promesse vacue, pronte a sciogliersi nella loro inconsistenza. Percorsi antitetici, uno impervio, l’altro scorrevolissimo, verso una destinazione coincidente: lo spreco della vita. L’Amore può redimere, l’odio conduce inevitabilmente alla dannazione. Il suo scherzo diventa allora la possibile salvezza per entrambi. Ma se la donna, da sempre vincente, è ben pronta ad abbracciarla, il Misantropo non ne ha la forza, né il coraggio e preferirà continuare a non vivere.
Due figure maestose, quelle scolpite da Molière, incarnazioni di eterni dilemmi della mente, rappresentazioni estreme delle infinite dualità della psiche, di fronte allo spinoso problema del gestire la passione. Ma sul palcoscenico del Teatro Ambra Jovinelli solo Valeria Solarino rende giustizia al suo personaggio, con una presenza scenica, che non discende solo dalla naturale eleganza, ma sembra rispecchiare una personalità naturalmente autorevole. Tratto che si trasferisce integralmente alla sua Celimene, figura che, pur nella caduta, sa riprendere in mano con decisione il bandolo della sua esistenza, stagliandosi imperiosamente sulle meschinità altrui. Alceste ha la forza di un eroe tragico, ineluttabilmente chiamato dal suo infausto destino. Ma un Giulio Scarpati tecnicamente pulito, ma nulla affatto incisivo, non riesce a scolpirlo a tutto tondo, nel suo pieno, imponente spessore.
Questa impostazione si ravvisa in tutto l’allestimento e nella regia di Nora Venturini. Tutto è corretto, ma nulla emoziona. Un compito portato avanti con coscienza e professionalità, ma nessun lampo capace di infiammare. Accorgimenti scenici privi di suggestione, scenografia convenzionale, movimenti orchestrati approssimativamente, dialoghi e siparietti strutturati per suscitare la facile risata, i soliti costumi sfarzosi (eleganti però gli abiti della Solarino). Tutto per accaparrarsi la sufficienza, nulla per cercare l’eccellenza.
La regia pare affidarsi esclusivamente, per cercare un valore aggiunto, alla fama ed all’estro degli attori. La prima però, come nel caso di Scarpati, non è sufficiente. Più convincente il Filinto di Blas Boca Rey, altro volto prestato dalla televisione. Gli altri protagonisti si danno un gran da fare, sfoggiando estro e talento. Spicca Anna Ferraioli, l’infida Arsinoè, con la sua trascinante vis comica. Trascinanti anche gli altri comprimari Matteo Cirillo, Mauro La Manna e Matteo Cecchi, nelle pompose apparizioni del borioso Oronte o nei gustosi siparietti dei marchesini Acaste e Clitandro. Ma le loro performance, prive di un solido supporto, fluttuano come isolate esibizioni.
L’arte può essere un mestiere. Un testo classico, nomi di richiamo, una buona confezione. Così si impacchetta un prodotto destinato a garantire incassi, e ciò non è male. Ma se il teatro dimentica di essere ricerca e si accontenta di essere produzione, la sua vita è breve. Industrie più potenti, il cinema e soprattutto la televisione, sanno sfornare quotidianamente prodotti nuovi. E Molière, purtroppo, è morto.
Valter Chiappa
18 Marzo 2019