Recensione dello spettacolo La cena delle Belve in scena al Teatro Quirino dal 19 febbraio al 3 marzo 2019
“Rovesciamo la prospettiva: se volessi, potrei farvi fucilare subito tutti e sette. Quindi, non vi sto chiedendo di sacrificarne due, ma di salvarne cinque”. Quando il comandante tedesco Kaubach pronuncia queste parole siamo già nel cuore de La cena delle belve: i due uomini della Gestapo sono stati ammazzati, i festeggiamenti bruscamente interrotti da un pezzo e i (terribili) sette sono molto meno amici di un paio di ore prima. Insomma, il pasto delle belve è sul fuoco e sta per essere consumato: i sette protagonisti non hanno molto tempo a disposizione per scegliere chi, tra loro, consegnare alle SS. Ma, prima di addentrarci nei meandri più bui della natura umana, facciamo un passo indietro.
Siamo nella Roma fascista del 1943, nell’appartamento di Sofia (Marianella Bargilli) e Vittorio (Ruben Rigillo), una giovane coppia di sposi. Ad introdurci immediatamente nel periodo storico in questione ci pensano le proiezioni e i disegni di Cyril Drouin: una finestra sul mondo che a poco a poco restringe il campo fino a inquadrare soltanto quel che accade fuori dal palazzo. Un escamotage per offrire allo spettatore una visione che va ben oltre il palcoscenico e allarga la scena, nonostante scenografia, costumi e musiche bastino a fare da contesto.
Ancora qualche minuto prima dell’inizio dei festeggiamenti (è il compleanno di Sofia) ed eccoli arrivare, uno ad uno, nella loro veste migliore. Che Vahé Katchà abbia voluto dare a ciascuno dei propri personaggi la possibilità di essere “socialmente accettabile” almeno una volta? Chi può dirlo, di sicuro, come nel peggiore dei reality show, ha saputo tirare fuori il lato oscuro presente in ognuno di loro, scardinare luoghi comuni e distruggere quei pregiudizi che molto spesso offuscano la mente e impediscono di riconoscere la verità.
Una delle figure più abiette è proprio il “rispettabile” medico, magistralmente interpretato da Gianluca Ramazzotti. Il primo a tentare la fuga, è anche il primo, messo alle strette, disposto a sacrificare gli altri, lui che, ironia della sorte, dovrebbe salvarli. Non fanno scalpore, a questo punto, le sue simpatie per le ideologie naziste.
L’affarista Andrea (Maurizio Donadoni) e la vedova dalle idee rivoluzionarie Francesca (Silvia Siravo) sono forse gli unici personaggi ad essere coerenti da inizio a fine: e se il primo manca di coraggio e valori, la seconda, al contrario, è impassibile a ricatti e mezzucci anche di fronte alla minaccia di morte. Non condividono questa levatura morale i padroni di casa, Sofia e Vittorio, pronti a vendere il loro stesso amore pur di salvare la pelle.
Completano il quadro delle macchiette Pietro (Francesco Bonomo), il partigiano che ha perso la vista in battaglia e ciononostante continua a credere nell’umanità, e Vincenzo (Emanuele Salce), il professore di filosofia gay, unico volontario nella lista degli ostaggi.
Al di sopra delle parti e, soprattutto, di ogni aspettativa è il comandante Kaubach (Ralph Palka). Il solo ad avere potere decisionale, è anche l’insospettabile a cui l’autore affida il messaggio più forte e spiazzante di tutti: chi siamo noi per decidere della vita e della morte degli altri?
Un lavoro, quello di Julien Sibre e Virginia Acqua, che ha saputo valorizzare il pluripremiato testo di Vahé Katchà nell’adattamento italiano di Vincenzo Cerami e le qualità artistiche di tutto il cast. Un lavoro fatto di sfumature, cura dei dettagli e introspezione psicologica quello degli attori, quasi sempre in scena e particolarmente bravi nel passare da un registro all’altro senza sbavature.
Una rappresentazione dal ritmo serrato, in cui non mancano momenti di tensione, abilmente smorzati da uno humor nero che strappa più di un sorriso e fa quasi amare quei personaggi tanto umani e tanto meschini.
Concetta Prencipe
3 marzo 2019