Recensione dello spettacolo Il fu Mattia Pascal, andato in scena al Teatro Marconi dal 24 gennaio al 3 febbraio 2019
Chi non ha mai sognato di avere una seconda possibilità nella vita, di rompere con la monotonia delle proprie giornate e cominciarne di nuove, costruirsi ed inventarsi un proprio passato da cui far nascere un nuovo presente? Così il tema del doppio del romanzo di Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal, espresso attraverso l’interazione di due esistenze, torna a vivere sul palcoscenico del Teatro Marconi grazie all’adattamento teatrale di Eleonora Di Fortunato e Claudio Boccaccini, che firma anche la regia dello spettacolo.
La storia è nota e Mattia Pascal, interpretato da Felice della Corte, la racconta ad un editore pronto a far fortuna con la vicenda dell’uomo che è l’unico ad esser vissuto e morto due volte. Dopo aver dissipato le sue fortune ed affrontato drammi famigliari, con il sorriso della sorte riesce a vincere al Casinò di Montecarlo 72 milioni. L’ingente somma e la notizia che durante la sua assenza il suo corpo è identificato nel cadavere di un suicida rinvenuto in un fiume, inducono il protagonista a decidere di cambiar vita. Eccola l’occasione per rompere con il passato e con il grigiore della routine. La presunta morte si fa sinonimo di libertà. Diventa Adriano Meis, si trasferisce in un camera in affitto a Roma, con l’illusione di potersi reinventare.
Quello che vedeva in un sogno si trasforma in un incubo. La scoperta rivelata agli spettatori è che è impossibile liberarsi definitivamente delle maschere che indossiamo. Non avere un passato implica non avere amici, non avere parenti né una storia da raccontare. Conosce così la solitudine e la seconda possibilità in realtà gli nega l’occasione di costruirsi una nuova vita. Non è vivo due volte, non è libero: è un fantasma, che appare nella seduta spiritica su cui indugia il regista. Comprende di non essere più né Mattia Pascal, né Adriano Meis. E’ solo il fu Mattia Pascal.
La bravura del regista e degli attori è nel rendere avvincente uno dei romanzi più popolari di Luigi Pirandello. Lo fa portando a riflettere ma offrendo, allo stesso tempo ,uno spettacolo ironico. Mai pesante né banale, calca un po’ troppo la mano dell’ironia nella spiegazione della teoria pirandelliana della lanterninosofia. Stona, tra l’eleganza e la leggerezza complessiva, la figura marginale di Pepita, volta a sdrammatizzare il momento della seduta spiritica, lo fa con troppa esasperazione. I dialoghi serrati e le discussioni tra i protagonisti a sottolineare il tema del doppio, delle maschere in cui l’uomo è imprigionato, anche quando si sforza di realizzare una vita autentica. La scelta della scenografia, una maestosa libreria e cumuli di libri sparsi ovunque, ricorda a più riprese, che a volte è proprio la lettura a nutrire il desiderio di evasione. “I libri, con i loro colpi di scena, fanno apparire la nostra vita sempre uguale. Fino alla morte.”
Per questo si può amare la lettura, come faceva Mattia Pascal, o odiarla. E lo spettatore è coinvolto ad esaminarsi: dare un colpo di scena alla propria vita è realmente così vantaggioso?
Enrica Di Carlo
3 febbraio 2019