Recensione dello spettacolo “Dopo la prova”, in scena al Teatro Vascello dal 31 Gennaio al 10 Febbraio 2019
"Dopo le prove mi trattengo volentieri sul palcoscenico. Mi serve per riflettere in pace e con calma sul lavoro della giornata. È nell'ora del crepuscolo che piomba il silenzio sul grande teatro" recita la voce fuori campo, al sollevarsi del sipario.
Henrik Vogler (Ugo Pagliai), anziano ed affermato regista, è riverso su un tavolo del palcoscenico. Attorno a lui manichini e arredi di scena di vecchi spettacoli. Quando, dopo la prova, il teatro si svuota – sta allestendo ancora una volta ll sogno – rimangono solo il silenzio, le ombre del passato. E i suoi fantasmi.
In questa realtà inanimata, ma intimamente pulsante, come un’epifania appunto, appare Anna Egermann (Arianna Di Stefano), giovane ed ambiziosa attrice, avocando a sé la parte della figlia di Indra nel dramma di Strindberg. Figura reale o simbolica? Anna è figlia di Rakel, anch’essa attrice, con cui, nella sua giovinezza, Henrik lavorò e forse intessette una relazione (Anna potrebbe essere addirittura sua figlia). Ma ecco che la conversazione fra i due cessa, Anna si congela fra gli altri manichini e ad essa, uscita dal fondale, si sostituisce Rakel (Manuela Kustermann). È lei il nuovo alveo dove scorre il flusso di coscienza di Henrik. La sua vicenda di attrice prima osannata, poi caduta in disgrazia, schiava dell’alcool, si intreccia con quelle del regista e della figlia. Nuovi meandri dove i flutti della mente si incanalano, sciogliendosi e riannodandosi. Le figure femminili si avvicendano nuovamente e Anna, improvvisamente seducente, riceve da Henrik la dichiarazione di un amore torbido, non importa sia carnale. Quando la ragazza si allontana definitivamente, dopo uno servante contradditorio, assieme al regista, sulla scena rimangono solo gli oggetti del teatro, unico mondo possibile, per dare, nella costruzione dello spettacolo, un senso ad una realtà i cui grovigli è altrimenti impossibile dipanare. La seduta è terminata.
Dopo la prova, film del 1984 di Ingmar Bergman, ritenuto un testamento spirituale del grande regista svedese, contiene le sue riflessioni sul mestiere di artista, che non possono separarsi, tanto sono avvinghiate, da quelle di uomo giunto al limitare della sua esistenza. L’opera cinematografica (in realtà concepita per la televisione) trova nel teatro una ideale nuova possibilità di esposizione. L’allestimento teatrale riesce perché il palcoscenico, nella sua delimitazione geometrica, si presta naturalmente a racchiudere ciò che vorrebbe sfuggire, e che sfugge, agli insufficienti limiti della mente. Tutto su esso può essere contenuto, così come i personaggi stessi, non vincolati alla esigenza di rappresentazione di vite reali, contengono e incarnano gli insondabili moti dell’inconscio che, ineluttabilmente, governano la nostra vita.
Ma, in particolare, la trasposizione in scena al Teatro Vascello, ha efficacia grazie all’abile regia di Daniele Salvo, in questa circostanza preziosamente aiutato dalla scenografia di Alessandro Chiti. Il riferimento all’opera di Strindberg, antesignana del teatro psichico, è evidente. Un’atmosfera nebbiosa, un velo impalpabile fra il pubblico e il palcoscenico creano l’universo onirico, in cui tutto diventa possibile. Suggestivo l’uso dei fondali da cui i due personaggi femminili emergono e rientrano, per prendere vita e voce o tornare ad essere presenze immobili. Le presenze degli oggetti sono luoghi della memoria su cui le luci ondeggiano suggestivamente, a terra un tappeto di foglie autunnali. Un orologio senza lancette cita Il posto delle fragole, la cui vicenda è parallela, ma simmetricamente trattata con uno svolgimento dinamico, il viaggio del professor Isak Borg contrapposto alla stasi definitiva di Henrik Vogler.
Non si può ovviamente trascurare il contributo dell’interpretazione di due maestri come Ugo Pagliai e Manuela Kustermann. Vigorosa, a tratti spigolosa, la recitazione del primo; enfatica, oltremodo, quella della protagonista. Ma, pur riconoscendo a ammirando il virtuosismo di cui solo un grande attore è capace, rimane la percezione di una maniera proveniente da un consumato mestiere, che toglie spazio al coinvolgimento emotivo. In questa ricerca di rigore stilistico appare coinvolta anche la giovane Arianna Di Stefano, che non esce dal dominio dell’impostazione.
Chi assiste a Dopo la prova, si immerge, in definitiva, in uno spettacolo complesso, impegnativo, ma ipnotico ed ammaliante. Perché il viaggio di Henrik fra i simulacri dell’esistenza, quando, per età o per predisposizione, ci apprestiamo a tirarne le somme, è anche il nostro. Può apparire un sogno, ma è la Vita.
Valter Chiappa
3 Febbraio 2019